LE PAURE DEGLI ITALIANI – di Valerio Castronovo (Recensione)
Quando la politica inibisce il progresso
Ottima lettura di poco più di 150 pagine – incluse le note -, ma molto attuale pur essendo pubblicata nel 2004, quando già vi si anticipava l’ andazzo a cui il nostro caro, povero ed ignaro Popolo si stava ormai avviando.
Valerio Castronovo è un autore apprezzato e competente studioso di storia e, contrariamente a molti dei nostri sinistri teorici, è guidato dalla sua utile visione cosmopolita ed offre, in modo particolare, un variegato mosaico degli eventi economici ai quali ha dedicato distinte opere, anche tradotte in diverse lingue. Qui, egli analizza brevemente i percorsi che hanno condotto il nostro Paese che, partendo da una positiva evoluzione di relativo benessere, verso ad una posizione degenerativa di palese sconforto e che oggi, purtroppo, conferma ahimè tutta la durezza di una decadenza diventata ormai cronica.
In questa sua concisa opera, l’autore propone una sintomatica radiografia della situazione che già allora si annunciava critica e che cominciava a destare preoccupazioni, prevedendo come il condizionamento che ci veniva imposto da decenni di ambigue tendenze economiche populiste, dettate dalla retorica dell’ideologia dominante, avrebbero portato all’attuale parossismo. Non per niente, continuando sulla strada intrapresa da quella nostra perniciosa politica, non si poteva non essere guidati altrove se non verso questo processo morboso, sfociando in una sempre più seria e minacciosa, più reale e concreta crisi. Ora, non abbiamo più dubbi; infatti, i nodi sono giunti al pettine e non ci resta che riconoscerlo amaramente, augurandoci che i nostri politicanti, finalmente, si facciano coraggio e decidano di cambiare rotta, facendoci uscire dalla palude in cui ci hanno condotto.
Infatti, noi Italiani, grazie alle iniziative ed alla capacità dei nostri migliori cittadini, dopo aver saputo generare il nostro miracolo economico, naturalmente, anche con il contributo degli aiuti americani del Piano Marshall, ci eravamo meritati una generale ammirazione e c’erano tutti i motivi per essere considerati come uno dei più brillanti esempi di successo per lo sviluppo industriale e per il progresso economico raggiunto dal Dopoguerra. Eppure, a poco a poco, per tutta una serie di – più che note – deleterie circostanze siamo scivolati indietro fino a diventare il fanalino dell’ Europa che conta: una Nazione depressa che si sta arrendendo ad un crescente declino sia dal punto di vista economico che per la forte stagnazione demografica.
Ebbene, per decenni, ci siamo abituati a vivere sugli allori, nell’ illusione che avremmo potuto continuare a spendere oltre a ciò che il nostro sistema era in grado di produrre, senza troppo preoccuparci dell’ avvenire. Così, siamo riusciti ad accumulare debiti che le prossime generazioni dovranno, in qualche modo, estinguere, mentre le prospettive si mostrano ogni giorno più grigie. Ed ora che dovremmo reagire ed imprimere alla nostra politica altri indirizzi, ci dobbiamo rendere conto che non possiamo continuare di questo passo, sapendo che fra qualche decennio i pochi giovani avranno da mantenere una quantità sempre più numerosa di anziani e, forse, nell’attesa di fare nuovi progressi tecnologici, verso soluzioni di maggior valore aggiunto e di più adeguata produttività, ci tornerà utile l’ausilio delle nuove leve di immigranti che oltretutto si dispongono ad assumersi anche quei compiti scomodi che le nostre giovani generazioni credono di poter declinare.
Ciononostante, nei diversi ambienti della nostra sinistra, non riescono ancora a percepire le gravi cause che hanno portato a questa deprimente congiuntura, ragione per cui sarebbe oltremodo urgente che certi politicanti e soprattutto i nostri indottrinati sindacalisti, si facessero un sincero esame di coscienza e dessero un loro contribuito positivo per portare ad una svolta, lasciando, fra l’altro, a chi genera ricchezza con le loro iniziative, margini di profitti capaci di permettere loro di tornare ad investire parte dei propri utili da dedicare alla ricerca dell’ innovazione e metterli in condizioni per potersi meglio confrontare in questo contesto del competitivo mercato globalizzato, invece di continuare a commiserarsi, piangendosi addosso.
E non ci sono più dubbi che il nostro caro Paese ha bisogno di cambiamenti radicali: meno interventi economici da parte della politica; meno regole di restrizioni; più libertà in tutti i sensi; riduzione delle spese pubbliche; meno sprechi, meno generosa solidarietà istituzionalizzata, più riconoscimenti e premi all’ effettivo merito e, quindi, riduzione della pressione fiscale di questo presuntuoso potere pubblico, oltremodo vorace e che induce grande parte del sistema produttivo a lavorare oltre metà dell’ anno per il solo mantenimento del suo perverso ingranaggio improduttivo che solo mira a soddisfare, con le sue esuberanti appendici, il tentacolare modello burocratico che ingessa ed eccessivamente inibisce la libera iniziativa che è, poi, l’unica legittima deputata alla generazione di ricchezza da distribuire.
Così, il nostro modello produttivo è stato esageratamente condizionato dai vizi politici, ingessato da una pletora di norme, dissuadendo buona parte del sistema, costantemente soggetto ai ricatti del corporativismo sindacale, fino a riuscire ad incepparlo, al punto di paralizzare, con una specie di camicia di forza virtuale, la maggioranza delle iniziative private proprio dei nostri migliori imprenditori, nonché degli individui più creativi del nostro caro Paese, così povero di risorse naturali, ma così ricco di capitale umano, dove, i più intraprendenti e coraggiosi, volendo prosperare, sono oggi ahimè stimolati ed indotti ad abbandonare l’ Italia per cercare maggiore comprensione e migliori opportunità altrove, dove sovente si stende loro il tappeto rosso e sono accolti a braccia aperte e non sono messi alla gogna come avviene in Patria, eternamente tacciati come evasori o sfruttatori di manodopera.
Non è più possibile ignorare che, ormai, di fatto, è giunto il momento di ripensarsi per tutta la nostra insensibile ed indifferente classe politica, in buona parte, parassitaria e succube di un endemico provincialismo dallo sguardo oltremodo limitato, al quale il buon Tomaso di Lampedusa ha giustamente dedicato la nota allegorica lettura de IL GATTOPARDO, in cui descrive la necessità di cambiare tutto affinché tutto – e principalmente i privilegi – possa continuare inalterato. E’ davvero giunto il momento di esortare i governanti a girare pagina; dare meno valore alle loro obsolete ideologie egualitarie, che hanno la vana pretesa fare giustizia, rimediando alle spontanee ingiustizie aleatorie della legge naturale, con misure, tuttavia, altrettanto ingiuste, ma al contrario imposte di proposito e protette dalle leggi positive spesso più che discutibili e che, alla fine dei conti, non hanno fatto altro che minare tutto ciò che funzionava discretamente, generando questa pasticciata e tremenda condizione che ora la grande maggioranza degli Italiani, ma soprattutto i giovani, privi di ragionevoli prospettive, hanno sotto gli occhi.
E’, pertanto, imperativo che si rivedano non solo le mete, ma in primo luogo i discutibili metodi adottati per, finalmente, tornare ad incentivare la gente ad arrotolarsi le maniche, saper mettersi in prova, riscoprendo i valori del modello concretamente pragmatico al posto delle astratte tesi del modello teorico dottrinario, all’ esempio di ciò che stanno facendo Paesi emergenti come la Cina e l’ India – ma non solo -, dove, per aver saputo dare respiro alla propria iniziativa privata, hanno imparato a fomentare lo sviluppo di quel fenomeno del circolo virtuoso così caro a quell’Ordine spontaneo che è il Mercato – del quale tanto ci ha insegnato i grandi economisti liberali della Scuola Austriaca Ludwig von Mises e F.A. von Hayek – Ordine che ormai da anni fa segnare loro indici di crescita a due cifre che noi possiamo solo sognare od invidiare, dopo che quegli stessi Paesi avevano sofferto i peggiori effetti del contraddittorio ed intollerante socialismo reale, subito dai rispettivi sudditi per mera volontà dei loro incompetenti indottrinati ostinati dirigenti.
In conclusione, questo è un breve saggio da leggere in poche ore, ma molto eloquente perché non solo induce ad una utile meditazione sul nostro recente passato, ma aiuta soprattutto a comprendere la genesi della sindrome del pessimismo italiano che ormai da tempo domina lo scenario delle nostre tristi contrade, producendo la depressione che affetta la maggior parte dei nostri focolari. Infatti, come l’edizione suggerisce in quarta copertina, l’autore, qui cerca di rispondere all’ emblematica domanda: “Perché siamo diventati più poveri?”