Sotto questi auspici, non solo di Tancredi Falconeri, ma di quasi tutta la classe dirigente italiana nasceva centocinquanta anno addietro il nostro Stato unitario. Auspici di opportunismo più che di libertà, di conservazione di privilegi più che di eguaglianza, di egoismo più che di fratellanza. In sintesi, una Unità gonfiata a dismisura di retorica ed, al contempo, priva di vera solidarietà nazionale, non fondata su quel solido patto sociale, che normalmente si dovrebbe trovare alla radice di tutti gli Stati democratici. Troppo frequentemente nel Risorgimento trionfò vanagloria e cialtroneria di personaggi alla Tancredi, che possono incarnare l’immagine emblematica dei veri vincitori dell’Unità italiana:
“[…] si era guardato un momento nello specchio del secchio e si era trovato a posto, con quella benda nera sull’occhio destro che ormai ricordava, più che curasse, la ferita buscata tre mesi fa ai combattimenti di Palermo; con quell’altro occhio azzurro cupo che sembrava aver assunto l’incarico di esprimere la malizia anche di quello temporaneamente eclissato”7
Tuttavia ciò non significa che un Risorgimento tradito, forse manipolato, certo incompiuto, non abbia espresso anche protagonisti eroici e non abbia prodotto sentimenti sinceri di puro idealismo e di profonda solidarietà umana.
Ingenuamente si potrebbe pensare che l’avvento della Repubblica con la sua Carta Costituzionale del 1947 sia finalmente riuscito a sistemare in modo democratico la situazione storica, ma purtroppo così non è stato. Non è certo questa la sede più opportuna per soffermarsi troppo analiticamente su una costituzione portatrice di norme più velleitarie, compromissorie e contraddittorie che chiaramente operanti; tuttavia basti ricordare, a mero titolo esemplificativo e simbolico, il dettato dell’articolo 75 secondo comma:
“Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio […].”
Strana costituzione democratica quella che per sfiducia nelle potenzialità democratiche dei propri cittadini sottrae alla loro diretta valutazione proprio uno dei pilastri più solidi delle moderne democrazie, quel principio che afferma no taxation without representation e che si trova all’origine della stessa Magna Charta Libertatum, concessa dal re inglese Giovanni Senzaterra ai suoi barone il 15 giugno 1215. Infatti, tra i più importanti principi enunziati nella Magna Charta, considerata a ragione uno dei primi documenti giuridici posti a fondamento del moderno Stato di diritto, brillava proprio il divieto posto al re di imporre nuove tasse ai propri vassalli senza il consenso dei medesimi. Se poi dall’empireo dei principi costituzionale si passa agli inferi della prassi statale quotidiana la situazione si aggrava, degenera irrimediabilmente e mostra con evidenza la natura prevalentemente autoritaria e truffaldina dello Stato italiano.
Un chiaro quanto triste esempio di tale situazione lo si può osservare con sgomento in quanto è successo in Italia a seguito della sentenza del 14 settembre 2006 della Corte di Giustizia della Comunità Europea, che condannava l’Italia nel procedimento C – 228/05 a restituire ai soggetti passivi interessati il credito I.V.A. loro non riconosciuto sulla base dell’illegittimità del regime italiano sulla detraibilità dell’I.V.A.. Senza ora trattare i motivi che hanno indotto la Corte di Giustizia Europea a dichiarare l’illegittimità della normativa italiana in materia, motivi che, per altro, sono molto indicativi ed interessanti, in quanto riguardano le procedure di introduzione delle normative stesse ed i tempi ultraventennali di proroga usati, a fronte di disposizioni che, al più, potevano essere temporanee per motivi congiunturali, interessa maggiormente evidenziare il malcostume statale, palesemente elusivo del dispositivo della sentenza europea, che ha informato la simulata ottemperanza a detta sentenza.