Il federalismo repubblicano di Cattaneo fu osteggiato, in primo luogo, dal repubblicano Mazzini, che voleva realizzare l’ideale unitario e non lasciare sopravvivere, sotto mutata forma, i principali Stati pre-unitari.
Infatti, l’unica versione storicamente rilevante del federalismo, che aveva ottenuto anche larghi consensi nell’opinione pubblica italiana al tempo della prima guerra d’indipendenza nel 1848, non era stata quella d’ispirazione repubblicana, ma quella propugnata da Vincenzo Gioberti, cui si doveva il progetto di una Federazione degli Stati italiani esistenti con il patrocinio del Papa. Faccio riferimento al libro del Gioberti, “Del primato morale e civile degli italiani”, pubblicato a Bruxelles nel 1843; il testo di riferimento della corrente di opinione pubblica che fu detta “neoguelfa”.
Nel mese di settembre del 1860, Cattaneo si recò a Napoli e cercò di convincere Garibaldi a differire il plebiscito per l’annessione del Mezzogiorno al Regno d’Italia, suggerendogli di convocare prima elezioni per costituire un’assemblea rappresentativa dei territori dell’ex Regno delle due Sicilie.
In questo modo, la predetta assemblea avrebbe garantito l’autonomia della popolazione meridionale anche nel contesto del nuovo Stato unitario.
Giuseppe Garibaldi, che credeva nell’ideale italiano unitario, accolse con grande cortesia Cattaneo, ma non tenne in alcuna considerazione i suoi consigli.
Al di là delle ricostruzioni storiche, è falso che Carlo Cattaneo avversasse l’unificazione nazionale italiana. Nel suo libro “Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra”, pubblicato nell’edizione italiana agli inizi del 1849, egli scrisse che: “non vi è grandezza, né forza, né maestà che sia maggiore di quella dell’universa nazione. Solo l’Italia può parlare da eguale alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra”. Oltre agli Stati italiani federati, che avrebbero conservato ciascuno il proprio assetto e ampie autonomie, voleva un ordinamento federale che avrebbe avuto il proprio organo fondamentale in un “congresso nazionale”, ossia in un’assemblea rappresentativa dell’intera Italia.
Nella conclusione de “L’opera politica del conte di Cavour”, Omodeo ha scritto di “questa curiosa vicenda per cui, a volta a volta, e Mazzini e Cavour e Garibaldi vedon corretta, limitata e modificata nell’urto reciproco la propria opera e ognun d’essi compie una funzione specifica e distinta e le opere loro s’integrano oltre le loro mire”. Si tratta di una costante dell’interpretazione omodeiana del Risorgimento italiano. Già nel 1927, nel saggio “Il realismo di Cavour”, aveva affermato che “il Risorgimento ebbe e serbò il carattere dialettico di forze contrastanti e collaboranti”.
Le opere storiche di Omodeo attestano quanta stima egli nutrisse nei confronti di Cavour; una stima supportata da ragionamenti lucidi e capace di trasformarsi in argomenti per conquistare i dubbiosi. In Omodeo c’è però la radicatissima convinzione che Cavour non sarebbe stato quello che fu senza la critica pressante di Mazzini. Critica che rese più forte Cavour nei suoi rapporti con il sovrano francese Napoleone III.
Come ha ben scritto Omodeo, Giuseppe Mazzini rappresenta la purezza dell’idea italiana: “la coscienza pubblica non avrebbe ammesso un mercato del territorio nazionale”, perché era stata educata ad immaginarsi l’Italia una attraverso la predicazione mazziniana.