Un approccio storico realistico non può prescindere da due dati strutturali. Il primo è che, in un Paese profondamente cattolico, la necessità di ricondurre alla sovranità italiana vasti territori per secoli dominati dallo Stato della Chiesa, rendeva i patrioti italiani invisi all’opinione pubblica cattolica.
In ciò si coglie la debolezza dello stesso partito moderato, che non poté consolidarsi nella sua naturale area di consenso sociale. Il secondo dato strutturale è che l’economia del Paese era prevalentemente agricola e fra le grandi masse rurali del Mezzogiorno, nel 1860, e ancora per tutto l’Ottocento, l’analfabetismo costituiva la regola. Nel Sud era più facile suscitare un movimento reazionario di massa, filoborbonico e filoclericale, che fare attecchire progetti illuminati tendenti ad ordinamenti liberi e riforme sociali. Quanti puntarono sul brigantaggio contro l’Italia unita, avevano in mente un precedente storico, che serviva come modello di riferimento: “l’Esercito della Santa Fede”, anche detto “Armata cristiana e reale”, guidato dal Cardinale Fabrizio Ruffo, che si era battuto contro i giacobini francesi e nel 1799 aveva travolto la Repubblica Napoletana.
Per quanto riguarda Benedetto Croce, il suo contributo non è limitato alla produzione storiografica. Seguendo la lezione di Francesco De Sanctis, Croce intese perfettamente l’importanza della letteratura, come chiave
dell’anima di una Nazione. Siamo e ci sentiamo Italiani perché parliamo la lingua di Dante, di Petrarca, di Machiavelli, di Alfieri, di Foscolo, di Manzoni; perché ci sentiamo parte di una comunità spirituale permeata ed educata dai pensieri e dai sentimenti di questi e di tanti altri Autori, non meno significativi. Il concetto di Patria, sempre richiamato da Croce, ha rilevanza su un piano etico-politico; significa comunanza di lingua, di tradizioni, di memorie, senso di appartenenza ad una storia comune. L’amor di Patria non va confuso con il nazionalismo, che invece è un fenomeno negativo, essendo caratterizzato da un atteggiamento aggressivo nei confronti degli altri popoli, nell’intento di dominarli.
Oggi va di moda il federalismo e si tende a dare a questa parola il significato più ampio possibile: fino a ricomprendervi concezioni che, fino a poco tempo fa, sarebbero state ricondotte al principio di autonomia, la cui portata è ben più ampia. Ad esempio, don Luigi Sturzo era un autonomista; ma quanti si richiamano a lui sembrano divenuti incapaci di distinguere tra favore per le autonomie regionali e locali, da un lato, e modello di Stato federale, dall’altro. Così, nelle vicende del Risorgimento italiano, Carlo Cattaneo fa la figura di chi aveva visto meglio di ogni altro. Come sappiamo, il punto di vista di Cattaneo rimase minoritario.
Certamente, non soltanto perché contrario agli interessi dinastici di Casa Savoia. Rimase minoritario perché si scontrava con difficoltà reali.
Basta considerare il fenomeno del brigantaggio, che aggravò i problemi del Mezzogiorno. L’ex Regno delle Due Sicilie contava sedici province di terraferma, alle quali si aggiungevano sette province della Sicilia: un totale di 23 province, quando il numero complessivo delle province italiane sarebbe arrivato a 69 con l’annessione del Veneto, dopo la terza guerra d’indipendenza nel 1866. Ciò significa che la condizione del Meridione, che riguardava una porzione così rilevante del territorio nazionale, non poteva non pesare anche sul modello organizzativo del nuovo Stato unitario e sull’insieme dei rapporti fra Governo centrale e realtà locali. Gli storici non prevenuti dovrebbero convenire che non fosse concretamente percorribile la scelta di riconoscere ampie autonomie locali nel momento stesso in cui occorreva contrastare, con metodi militari, un fenomeno così capillarmente diffuso come quello del brigantaggio meridionale.