Lo spettacolo, tratto dall’Edipo Re di Sofocle, è stato realizzato in coproduzione con la Fondazione del Teatro Stabile di Torino e con il sostegno di Sistema Teatro Torino.
I Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, storica compagnia torinese attiva sulla scena nazionale dal 1984, tornano a Roma dopo quattro anni di assenza dai palcoscenici capitolini e presentano per la prima volta al teatro Vascello per 6 repliche il loro Edipo Re, nella traduzione del regista Marco Isidori, fondatore della compagine con la scenografa e costumista Daniela Dal Cin e l’attrice Maria Luisa Abate. Lo spettacolo messo in scena per la prima volta nel 2012 a Torni e candidato per il Premio Ubu 2012 per la migliore scenografia. Le suggestioni della scrittura sofoclea vengono ibridate e disciplinate nella rilettura e traduzione di Isidori così come nella trasposizione scenica a quelle hölderliniane dell’Edipo tiranno. L’esito dell’impresa dà vita a una drammaturgia corale, spogliata dai riferimenti mitologici, incentrata sui valori sonori e poetici della parole, sulle sue discontinuità e sugli “intoppi” che restituiscono nuova linfa alla comunicazione teatrale, in conformità con la ricerca trentennale della compagnia.
Note di Marco Isidori
L’EDIPO RE di Sofocle tradotto dai Marcido:
una storia per an/negar la Storia!
Il nostro quarto appuntamento con i temi della tragedia attica (ricordiamo Agamennone 1988, I Persiani 1992, Prometeo incatenato 1998) consisterà, come è avvenuto per tutte le avventure spettacolari che ci hanno educato al grande mestiere della Scena, in un incontro/scontro con la seduzione tremenda e contraddittoria della scrittura dell’Edipo Re sofocleo.
Un elemento importante che ci ha guidato nella decisione di rappresentare questo corpo teatrale così tanto incrostato di suggestioni interpretative tra loro anche in palese discordanza, è stata la continuata, amorosa, fedele frequentazione dell’Edipo il Tiranno hölderliniano.
Hölderlin, insieme naturalmente con la profonda maestria sofoclea, è il mentore della versione marcidoriana della tragedia in questione: non ci siamo serviti direttamente della traduzione che Hölderlin fece del capolavoro sofocleo (traduzione all’epoca negletta e persino derisa), però, anche se assai discosta da questa, la nostra “riscrittura” dell’Edipo è stata spiritualmente influenzata dall’esito del gigantesco lavoro di sonda che il poeta tedesco ha dedicato all’originale dettato greco.
Come sempre, com’è costume ormai consolidato dell’agir teatro della Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa il cardine su cui ruoterà tutta la possibilità per l’impresa di rivelarsi “necessaria”, sarà il cardine rappresentato dall’accesa verticalità del progetto poetico: dalla forza della connessione ritmico/drammatica che la poesia (magistra delle altre ragioni artistiche) riuscirà ad imporre sulla “lettera” di quello che per meglio intendere l’intenzionalità partigiana che ci muove, riduciamo qui, nel corso del discorrere, al rango e alla semplicità operativa di un “copione”.
Abbiamo sottoposto il testo ad una sorta di aratura tragediografica che, smascherando per quanto è possibile la contingenza storica, ne riducesse l’apparato mitologico, e permettesse la germinazione spontanea di una struttura verbal/letteraria iperaccentuata su un versante di sbilanciamenti continui e intenzionalmente provocati, pervenendo così ad un’amalgama sonoro vorticante, che soprattutto andrà ad interessare la parte corale dell’esperimento in atto, servendo in questa maniera la nostra concezione fortemente fonematica del processo di comunicazione teatrale.
A titolo informativo dirò che ci siamo sentimentalmente attenuti all’insegnamento di Adorno, che commentando il sinfonismo mahaleriano, parlava di quanto fosse artisticamente più rilevante l’ingorgo/intoppo sonoro che a volte si gioca in questo compositore la fluidità del discorso musicale, che invece la spudorata “serenità” cantabile esibita in altri “momenti”.
Il nucleo d’incandescenza che fa indispensabile per i Marcido la loro difficile scommessa sofoclea, consiste nello schietto proposito di “NON” recitare i versi dell’impianto letterario (comunque questo sia pervenuto a farsi “testo” definitivo dal punto di vista degli apporti “autorali” che in ogni caso mi arrogo di aver creato per la maggior parte, e per il resto assai ben organizzato!) bensì, avanzando circospetti dentro al ventre del tragico come se si stesse avanzando in un territorio di operazioni belliche, affrontarne la catena eventuale, fino a che sarà essa stessa a proporci il nodo/quesito della Sfinge più tormentosa fra quanti sono i Mostri che si aggirano nei paraggi della nostra avventura di teatranti: quella Coscienza che ci chiede adesso, che ci chiederà poi, di valutare quanto peso “politico” lo svolgimento medesimo dell’azione artistica in atto può, potrà, diciamo e speriamo, “spendere”, a beneficio non solo di una comunicazione tutta spiegata e risolta nello “Spettacolo” e perciò sempre addomesticata dalla convenzione storica, ma anche e soprattutto questa “Coscienza” birichina, che corre in superficie ma spesso, carsicamente, scompare, ci chiederà conto della strumentazione etica ideale (Politica!) che il nostro comportamento estetico avrà saputo mettere a disposizione di coloro i quali ci pregeranno criticamente della loro pubblica attenzione.
Lo “spazio” del/per/il Teatro: un capitoletto “tragico”
Aborriamo il palcoscenico all’italiana!
Lo riteniamo del tutto inadeguato e anzi malefico come sede ambientale per un evento rappresentativo che possegga oggi qualche titolo di significazione reale.
Tutto il Teatro del secolo ventesimo che si sia posto la questione fondamentale del rapporto di comunicazione/comunione, effettiva e non soltanto spettacolarmente risolta, con il pubblico, ha saputo/voluto sperimentare strade scenograficamente le più varie, ma ciascuna pensata per una fruizione che coinvolgesse d’obbligo anche il livello sensoriale profondo degli spettatori convenuti.
Riuscimmo in passato ad “edificare” materialmente dei “luoghi architettonici” dove il pubblico partecipante e la scena agita godessero di una contiguità quasi imbarazzante, ma molto fertile di stimolazioni drammatiche – Le serve 1986, Agamennone 1988, Vortice del Macbeth 2002 – spettacoli i quali rispettivamente con l’Ovale, con la Reggia degli Atridi e con la Torre del Teatro Rosso, presentavano un’importante solidarietà fisica tra azione scenica e collocazione drammaturgicamente strategica del pubblico.
Per quest’Edipo, Daniela Dal Cin ha pensato ad uno scenario che, nonostante la deprecata ma in questo caso ineliminabile normalità prospettica, dia al pubblico l’impressione forte di non essere escluso; una sorta di Zigurrat attrezzato con passaggi segreti, botole, troni semoventi, che si rivela come una vera e propria installazione/cornice per un’interpretazione anche pittorica della “Peste” tebana; il “Palazzo di Edipo” conterrà, ma “susciterà” pure, e in misura certa, la rappresentazione che i Marcido andranno a proporre della tragedia di Sofocle.
Prezzo 15 euro posto unico