Il polpo Paul e le scommesse sportive

di THOMAS MARGONI

La morte del polpo Paul, protagonista assoluto durante lo scorso mondiale di calcio in Sudafrica con 8 pronostici azzeccati su 8, ci permette di riflettere sul peso e sull’influenza che la superstizione e la cabala hanno sulle scommesse sportive, pratica quest’ultima sempre più diffusa, visti anche i chiari di luna dal punto di vista finanziario.

C’è da dire in primo luogo che il fattore guida per lo scommettitore è sempre la mente, il cervello, che di suo è soggetto a continue fluttuazioni, dubbi e ripensamenti. Chi gioca lo fa seguendo una sorta di ispirazione, una premonizione quasi magica, un alone di capacità di predizione che sente attorno a sé in un determinato momento. Queste considerazioni ci fanno capire e comprendere come il soggetto in questione sia particolarmente fragile dal punto di vista emotivo, poiché nulla vi è di più aleatorio della psiche umana.

Scommettere significa stabilire un contatto extrasensoriale tra sé e l’evento su cui si punta, nella sottile speranza-convinzione di poterlo condizionare a distanza, in una omerica ipervalutazione della volontà, che con uno sforzo immane tenta di modificare a proprio vantaggio gli eventi. Ebbene, proprio in questa fase lo scommettitore è più recettivo nei confronti di condizionamenti esterni, ma si badi, non di qualsiasi tipo, solo se essi provengono da una qualche entità ritenuta in grado di ‘sintonizzarsi’ sulla stessa lunghezza d’onda, già fuori dell’ordinario, del giocatore. Ed in tal senso, cominciamo a capire come le scelte, di per sé non dettate dalla ragione, del polpo Paul, possano avere condizionato un così grande numero di persone in cerca di fortuna.

Paul rappresenta la quintessenza di ciò che il giocatore vorrebbe sempre avere a portata di mano, vale a dire un ente capace di indicargli la via giusta per vincere. Ma un ente che deve per forza essere non contraddistinto dai tratti della ragione, altrimenti perderebbe tutte le sue doti di predizione divinatoria; svalutazione della ragione? Non esattamente. Il punto è che chi scommette ritiene già, in una sorta di reminiscenza del proprio intelletto più razionale, che il gioco sia un ambito estraneo alla razionalità, dove essa, guida certa nella vita, non ha dimora. Senza volere scomodare Immanuel Kant, siamo qui di fronte ad una sorta di ragione parallela, uno schema di pensiero e di interpretazione della realtà nel quale i parametri di riferimento sono completamente altri rispetto a quelli della ragione ‘vera’.

Viene da domandarsi: lo scommettitore ha paura quando effettua la sua scommessa? Sì, ed è questo che lo condiziona davvero, e lo porta ad ascoltare voci esterne, purché del tipo sopra indicato. Ha paura di perdere i propri soldi, ovviamente, ma anche di perdere quella sorta di aura magica che si era convinto di possedere nel momento in cui aveva deciso di intraprendere la scommessa. E quindi diventa fragilissimo, come chi non è più padrone del suo cervello e della sua volontà più autentica. Ecco quella che è stata la reale forza del polpo Paul; ha saputo fornire allo scommettitore quella vocina interiore che ti infonde tranquillità, che ti toglie l’angoscia di essere solo di fronte al baratro della sconfitta e della perdita di certezze. Ha avuto la capacità, di per sé portentosa, di influire sull’animo umano apportando delle modificazioni sostanziali, tali da arrivare per fare dei paragoni forse empi, ma icasticamente ineccepibili, a evocare una divinità.

Questa sorta di fenomenologia della scommessa e del gioco, in relazione al peso della superstizione, ci porta a comprendere come il fattore umano, nelle sue declinazioni di debolezza e ritrovata ‘tranquillità’, sia il vero motore della questione, mettendo a nudo l’essere umano nelle sue profonde contraddizioni e debolezze.

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