The conservative heart di Arthur C. Brooks

Arthur C. Brooks è il presidente dell’American Enterprise Institute di Washington, uno dei più influenti think-tank americani dell’area repubblicana, conservatrice,pro-mercato. Secondo gli schemi della “sinistra regressista”, ma anche – diciamocelo – secondo il conformismo degli intellettuali “mainstream” europei, il suo profilo personale dovrebbe essere quello di un falco, di un liberista selvaggio (come si sa, per non pochi, in Europa, ogni liberismo è selvaggio, e ogni selvaggio è liberista…), di un affamatore dei deboli, di uno spietato darwinista sociale.

Ovviamente Brooks èdavvero un liberista e un cultore del mercato, ci mancherebbe che non lo fosse. E però, pur considerando quelle accuse spesso disoneste e intellettualmente risibili, Brooks non ne sottovaluta gli effetti, ci riflette, e invita il mondo conservatore a un profondo esame di coscienza. Se quella caricaturaè così diffusa, se così tanti uomini e donne in Occidente (anche in buona fede!) sono davvero convinti che la destra liberale sia fatta di egoisti privi di sensibilità sociale, vuol dire che i liberalconservatori devono imparare a cambiare linguaggio, a modificare tono, a rendersi comprensibili e“accettabili”.

Brooks è spietatamentelucido nel suo presupposto. L’offerta politica dei maggiori Paesi occidentali vede da una parte (a sinistra) una “compassione inefficace”, che parla di povertà ma non sa combatterla, anzi la alimenta con ricette sbagliate e stataliste, e dall’altra (a destra) programmi giusti, economicamente più credibili, spesso potenzialmente capaci di aiutare proprio i più deboli, e che – ciononostante – appaiono alla stregua di un “pragmatismo senza cuore”. E’ quello che Brooks chiama il “paradosso dei conservatori”: hanno le migliori soluzioni anche per gli strati più sofferenti della società, ma non riescono a farsene comprendere, e quindi non ne conquistano la fiducia.

Noi sappiamo bene -insiste Brooks – che tante accuse verso i liberalconservatori sono inconsistenti e false, e che i nostri argomenti contro il “big government” sono sacrosanti. Ma dobbiamo interrogarci autocriticamente, e prendere atto che è troppo facile per i nostri avversari rivoltare la frittata, e presentarci solo come quelli che vogliono abbassare le tasse ai più ricchi, a chi già sta bene.

E allora? E allora, senzarinunciare a un millimetro delle nostre ricette, bisogna smetterla di parlare (solo) di Pil, tasse, spesa e debito; bisogna smetterla di farci presentare come contabili senza sentimenti, e occorre rivendicare sempre le ragioni umane e umanistiche (di libertà, di dignità, di opportunità) alla base dei nostri programmi. Ed ecco perché, se negli anni Cinquanta Russell Kirk, nel suo saggio “The conservative mind”, aveva giustamente ricollegato illiberalconservatorismo moderno a una ricca e nobile tradizione di filosofia politica (a partire da Burke), sessant’anni dopo Brooks, oltre alla mente, ci invita a occuparci del “cuore”, e non solo del “cervello”.

Badate bene: quella diBrooks non è la solita rimasticatura del “compassionate conservatism”, la teoria del “conservatorismo compassionevole” che circola da quindici anni, sempre a partire dagli Stati Uniti. Brooks la respinge seccamente per tre ragioni. Primo, perché quella teoria lascia intendere che di solito il conservatorismo non è compassionevole. Secondo, perché non si tratta di modificare o amputare politiche e programmi, ma di cambiare linguaggio e comunicazione. Terzo, perché Brooks rifiuta la visione che alcune persone, ai livelli più bassi della società, non ce la possano fare: sbagliato, guai se dimentichiamo che gli esseri umani sono sempre una risorsa, non un peso.

In questo saggio che èdavvero di straordinaria importanza, vorrei isolare in particolare quattro aspetti.

  1. Brooks non ha paura dimisurarsi con il più alto e ostico dei temi: la felicità. E non si limita a citare la Dichiarazione d’indipendenza e il diritto di ciascuno a “perseguire la sua propria felicità”, fondamento stesso dell’”idea americana”. Brooks fa di più, e invita i conservatori a dare una dimensione “etica” a questa ricerca della felicità. I politici, troppo spesso, dimenticano di aver a che fare con i sentimenti, le emozioni, il vissuto delle persone. E Brooks ci offre alcuni criteri guida per non perdere di vista l’essenziale: preferire le “esperienze” al possesso delle cose (esempio: un viaggio con moglie e figli vale più di un oggetto prezioso da comprare per casa); evitare la ricerca esclusivadell’utilità immediata; ricordarsi di “usare le cose” e “amare le persone” (non il contrario!); perseguire l’abbondanza (niente ipocrisie!) ma senza rimanere attaccati alla dimensione materiale dell’esistenza. Si tratta di pagine di autentico valore morale e spirituale che sorprenderanno chi è abituato alla caricatura del “liberista selvaggio” alla quale facevo cenno in apertura.
  2. Venendo alle ricetteconcrete, Brooks crede che i conservatori debbano mettere al centro della loro comunicazione la “lotta alla povertà”. Perché lasciare questo monopolio alla sinistra? Bisogna essere capaci di rimarcare che la sinistra ama parlarne, ma poi, alla fine della fiera, non sa combattere la miseria, e anzi peggiora le cose con spaventosi piani di spesa pubblica e un gigantismo fiscale e burocratico che non aiuta né i forti né i deboli. Naturalmente, Brooks detesta il welfare tradizionale, quello che fa da “trappola” anziché da “trampolino”, quello che inchioda in eterno pezzi di società a una condizione di dipendenza dalla mano pubblica. Crede, al contrario, nella meritocrazia, nel dinamismo sociale, nella difesa strenua dell’impresa da tasse e burocrazia (unica condizione per creare nuovo lavoro), e crede soprattutto nel concetto di “opportunità”. Non puoi garantire uguaglianza totale: è un’utopia e forse anche un incubo illiberale. Ma devi garantire delle opportunità anche a chi parte indietro: e solo una vibrante economia di mercato può farlo. Certo, però, devi sfidare anche intellettualmente la sinistra, e spiegare che il lavoro è sempre una“benedizione” e mai una “punizione”. Brooks, ad esempio, rispetto alla condizione degli homeless, dei senza casa, cita il caso delle fondazioni private di New York che investono nei cosiddetti “lavori di transizione retribuiti”: mettendo questi cittadini senza casa, e spesso si tratta anche di ex tossicodipendenti o ex detenuti, a lavorare (anche con un salariobassissimo) per la pulizia di strade e giardini: dando loro un po’ di soldi, una divisa, una dignità sociale, per un tempo breve e definito, sufficiente a inserirli in un circuito di lavoro onesto. E il meccanismo funziona proprio perché queste persone, piano piano, hanno paura dell’idea di perdere quella divisa, quella rispettabilità, quell’opportunità, e quasi sempre non escono più dal circuito del lavoro, dopo quel primo impiego di transizione.
  3. Brooks dedica pagineimportantissime alla sfida più grande che attende una forza politica, un gruppo organizzato, una campagna: il passaggio dalla condizione di “movimento di protesta” a quella di “forza sociale”. Non basta la prima fase: quella della rabbia, del nemico, di una campagna condotta solo in negativo. Può trattarsi, magari, di un’inevitabile tappa iniziale. Ma un movimento che voglia crescere deve sapersi evolvere: passare dagli slogan negativi a una visione in positivo, da un approccio minoritario a un linguaggio e a un’ambizione maggioritaria, da una dimensione “oppositiva” a un respiro di governo. Brooks cita Martin Luther King e il movimento dei diritti civili e contro il razzismo: in fondo, sia pure pagando prezzi elevatissimi, come si sa, quel movimento seppe compiere questo percorso in pochi anni, relegando proprio i razzisti a una condizione di impresentabilità e di marginalità sociale. Mutatis mutandis, i movimenti di centrodestra (Brooks pensa ai Tea Party, ai movimenti antitasse di questi anni) devono saper fare altrettanto.
  4. L’ultimo capitolo dellibro di Brooks è forse il più choccante, perché l’autore abbandona il respiro del saggio e passa direttamente a una “precettistica” sulla comunicazione, con alcune regole d’oro che i conservatori devono adottare, se vogliono farsi ascoltare. Ecco qua. Mai limitarsi a freddi numeri, dati, cifre: ma evocare sempre il vissuto, le emozioni, e il valore “morale” delle proprie proposte. Battersi “per le persone”, non “contro qualcosa”. Essere ed apparire felici, positivi, ottimisti, non cupi, minacciosi, torvi. Non aver paura di rubare agli avversari (se ne hanno) argomenti efficaci. Andare anche in luoghi dove si teme di non essere bene accolti: serve a poco stare solo dove si sa di essere comodamente applauditi. Saper dire l’essenziale in 30 secondi: i telespettatori ci mettono un attimo ad annoiarsi, e a stabilire se sei un “amico” o un “nemico”. E soprattutto essere capaci di abbandonare la vecchia comunicazione, se i liberalconservatori vogliono smettere di essere incompresi, odiati, e perdenti.

Vale anche per l’Italia,se ci pensiamo bene. O vogliamo lasciare le emozioni a Landini e grillini?

Daniele Capezzone

Deputato di Conservatori e Riformisti. Liberale, liberista, libertario. Classical liberal and free-marketeer.

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