Quella volta che arrestarono Sophia Loren

La vicenda della detenzione di Sophia Loren fu un evento, per l’epoca, di interesse mediatico di proporzioni tali da non poter essere ignorato.

«Dal Ministero chiedono di lei», disse il centralinista attraverso l’apparecchio, «le passo la comunicazione». Dopo un breve intervallo una voce impersonale chiese: «È il direttore?» «Sì», risposi. «Devo trasmetterle un fonogramma urgente e riservato». Presi un foglio di carta dalla risma giacente sulla scrivania e cominciai a scrivere, mentre l’altro dettava: «Da Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale Istituti di Prevenzione e Pena – Ufficio detenuti – at Casa Circondariale Femminile Caserta alla persona del direttore. Comunicasi che in data odierna si costituirà presso codesta Casa Circondariale Scicolone Sofia detta Loren, nata a Roma il 20 settembre 1934 e residente in Confederazione Elvetica, per espiare mesi uno di reclusione. Codesta direzione all’atto dell’immatricolazione de la suddetta espleterà tutti gli adempimenti di rito, adotterà idonee precauzioni at salvaguardia incolumità persona suddetta et disporrà adeguati provvedimenti per ordine et sicurezza nell’istituto onde evitare inconvenienti di sorta. Restasi in attesa di riscontro in merito».
F.to il Direttore dell’Ufficio detenuti.

Era noto a tutti che la Loren era stata condannata qualche anno prima per evasione fiscale a causa di una dichiarazione dei redditi irregolare. La questione aveva occupato a lungo le pagine dei giornali e da tempo lei non varcava i confini dell’Italia per non correre il rischio di essere arrestata alla frontiera. Rilessi il testo del fonogramma e mi soffermai a riflettere su quali arcane e misteriose ragioni potevano aver indotto la direzione generale ad assegnare una detenuta di tal rango proprio al carcere di Caserta. Seppi dopo che lo consideravano un istituto tranquillo, lontano dai clamori della capitale. Non sarebbe stata certo quella destinazione a scoraggiare cronisti e fotografi di tutto il mondo come quei due giapponesi che, nei giorni successivi, avrei incontrato ogni mattina davanti all’ingresso con una strana apparecchiatura, forse una telecamera, e un gentilissimo sorriso stampato sulla faccia. “Buon giorno signora direttrice”, dicevano con un lieve inchino.

La Loren era, in quel momento, una delle attrici più famose del mondo, le era stato assegnato un Oscar per la sua interpretazione nel film di De Sica, La Ciociara, e aveva girato importanti pellicole in Italia ma soprattutto in America dove era considerata una stella di prima grandezza. Un personaggio così in vista avrebbe sicuramente catalizzato l’attenzione delle detenute. Era inevitabile che una legittima e ovvia curiosità coinvolgesse tutte, ma era anche inevitabile che tale curiosità creasse qualche problema o pericolo (minacce, estorsioni, insani appetiti sessuali ecc…).

Avere Sophia Loren come compagna di pena era una prospettiva sensazionale oltre che inimmaginabile. Lei giunse scortata da tre gazzelle della questura di Roma dalle quali scesero aitanti giovani, commissari, vicecommissari e agenti vari, che dovettero lottare non poco per farle superare incolume la barriera di giornalisti, cameraman, fotografi e curiosi formatasi nella piazzetta antistante all’istituto. La ressa era tale che tre agenti di custodia riuscirono a stento e con gran fatica, dopo il suo ingresso, a richiudere il portone d’accesso, evitando che l’androne fosse invaso da una moltitudine urlante Appena entrata apparve spaventata e sgomenta. L’impatto emotivo fu indubbiamente traumatico. Il repentino passaggio dall’eccitazione della folla scalmanata all’esterno, alla fredda e tetra realtà carceraria all’interno, le provocò un improvviso pallore e un involontario mutismo che si protrasse per qualche minuto. Parlò per lei l’avvocato che l’accompagnava. Fece le presentazioni, si dimostrò molto gioviale con tutti, ringraziò la scorta, scambiò ricordi e convenevoli con il comandante che già conosceva, s’informò sull’organizzazione dell’istituto, prese nota degli orari e dei giorni di visita, cercò di rassicurarla, la pregò di scrivergli, ci raccomandò molte cose ovvie e se ne andò. Lei rimase lì a guardarsi intorno disorientata senza saper bene cosa dire e cosa fare.
Non c’era più la «pizzaiola» prorompente di vitalità che aveva conquistato gli italiani dagli schermi cinematografici. C’era solo una signora attonita e smarrita per la perdita di un bene primario: la libertà.

Liliana De Cristofaro descrive tutto ciò che accadde nel carcere in quel frangente e come intorno a quel personaggio si concentro la curiosità di tutto il mondo e l’attenzione dei mezzi d’informazione, dando vita ad episodi di vario tipo, a volte anche grotteschi, ma Donne dietro le sbarre (Rubbettino) non è solo la storia di Sophia, è la storia di dodici donne vittime di uomini, della società, dei pregiudizi, delle circostanze avverse della vita, intrappolate in situazioni psicologiche complesse in cui si scontrano paure ancestrali, frustrazioni cocenti e spirito di vendetta.

Nel loro animo l’amore cede il posto all’odio, la speranza è sopraffatta dalla disperazione.
Passando attraverso le varie protagoniste, il lettore viene condotto alla scoperta degli aspetti più reconditi di un universo mai abbastanza esplorato qual è quello dell’animo femminile.

Dodici storie emozionanti, significative, drammaticamente vere che immergono il lettore in una atmosfera di realismo e di phatos, storie che consentono di analizzare i fatti da una prospettiva diversa dal solito, la prospettiva di chi commette il reato.

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