La carne arriva in tavola sempre meno buona e sempre più crudele

MARTINA CECCO

E’ un tema che scotta, quello del consumo di carne nei paesi occidentali: complice la crisi economica il consumo della carne nelle famiglie italiane, ad esempio, è diminuito del 6% circa, in altri casi invece è cambiato, aumentando la vendita di tagli diversi dal filetto e dal petto, cioè tagli di alimento che contemplano il consumo della intera parte commestibile dell’animale. Ma insieme al fattore economico anche quello etico sta giocando una parte importante, sono circa 5 milioni le persone che sono vegetariane in Italia, secondo le stime delle associazioni ambientaliste, 1 su 10 secondo la cronaca.

Restando con i piedi ancorati alla terra, senza volere troppo incidere sulle personali convinzioni in merito al consumo o al non consumo di carne per scelta personale, non possiamo però chiudere gli occhi su quelle che si possono definire storture, della filiera alimentare, che partono dal principio di un rispetto generale per il creato e per tutte le azioni che sono pensate per il benessere dell’uomo, purché in accordo con il rispetto della vita in assoluto. Una possibilità di scelta, almeno dal punto di vista culturale, c’è.

Tra le centinaia di posizioni diverse in merito al consumo di carni in tavola possiamo perlomeno riassumerne quattro come possibili e come applicate secondo le abitudini di ciascuna persona e le tendenze a seguire indicazioni rispetto che non altre: possiamo distinguere ad esempio tra coloro che di carne non ne consumano riunendo in due categorie, vegani da una parte e vegetariani dall’altra, le persone che rinunciano a carni e derivati animali e persone che invece rinunciano solo alle carni ma non al latte e alle uova. Per i consumatori di carne invece possiamo distinguere le persone con una alimentazione sana da coloro che hanno una alimentazione malsana, in riferimento a un consumo ponderato di carne e derivati animali o eccessivo.

Nella storia il consumo di carne è stato spesso indicatore di riferimento piuttosto notevole per la definizione del livello di ricchezza della popolazione: storicamente nei periodi in cui vi fu povertà assoluta il crollo del consumo della carne fu il primo e forse più attendibile dato per lo studio della qualità della vita dei nostri predecessori, seguito solo dal crollo del consumo del pane. Pensiamo come ad esempio nel basso Medioevo le malattie diffuse tra la popolazione fossero anche di tipo alimentare, cioè causate da un eccesso di povertà negli alimenti, come invece per le società isolate con alimentazione a base animale, l’eccesso nel consumo di questi alimenti fu a sua volta causa di malattia. Allo stesso modo adesso possiamo descrivere attraverso lo studio delle diffusioni delle malattie nella popolazione, lo status sociale degli individui e il loro livello culturale.

Tornando alle carni. Attualmente la tendenza sembra essere ribaltata: presa coscienza della possibilità di scelta sul tipo di alimentazione che si intende seguire, risulta evidente che l’eccesso nel consumo di certi tipi di alimenti, come ad esempio le carni dei fast food, gli insaccati, le varie fritture, non sono più indice netto di ricchezza, ma spesse volte invece un dato allarmante che denuncia una scarsa attenzione o una generale sottovalutazione dei rischi per la salute che si possono incorrere basandosi unitamente e unicamente sul concetto di alimento comodo e facile da consumare.

Più spesso quindi nelle tavole imbandite “a nozza” in senso metaforico, si trova non tanto la quantità opulenta di carni e pietanze grasse, nello stile immaginario della tavola romana, bensì la qualità alimentare risulta piuttosto dalla varietà di alimenti che si trovano in tavola e dalla ricercatezza della cucina. Che contemplano eccome anche le verdure e le proteine vegetali.

Tutto questo per arrivare a parlare del problema che più tocca la filiera alimentare, cioè quello dello sfruttamento animale, per la produzione di quantità commerciali competitive, nei grandi centri di produzione di carni per il consumo nazionale e per la esportazione.

Non si vuole qui colpire di netto chi ha scelto l’allevamento come professione, alla quale deve la sopravvivenza anche economica, bensì riflettere sulla non opportunità di insistere, almeno in Italia, sulla linea attuale economico-politica, che vuole a tutti i costi accentrare e ridurre a fabbriche di alimenti vivi quello che è forse il mestiere più delicato e difficile di sempre: il contadino allevatore.

La comodità dell’allevamento massivo, la fame di far soldi che attira il commerciante, il pressante rincorrersi di richieste e di consegne, hanno forse distrutto completamente, con le reazioni giustamente avverse di chi è più sensibile al problema, il ruolo dell’allevatore delle carni nella società, ottenendo perciò più danno che non beneficio dal punto di vista etico e anche, dati alla mano, economico.

L’immagine più giusta e più vera, quella che dovrebbe mantenersi valida per parlare di società moderna ed evoluta, in questo turbine di confusione di valori, resta quella del contadino allevatore, che all’alba si sveglia per seguire le sue bestie, ci parla, le chiama e in un certo modo le ama e le accudisce, le segue e le cura con premura e con apprensione, le fa stare bene per tutto il tempo in cui sono vive, nonostante sia cosciente che queste sono destinate prima o poi a finire in tavola. Infine le usa secondo necessità, riducendo al minimo il sacrificio di vita e cercando di sfruttare invece al massimo quello che si può ottenere dagli animali allevati. La mezza mia, l’equilibrio, la sensatezza .. ne scrivono libri sul pensiero contemporaneo, perché lasciare sulla carta quello che dovrebbe essere in realtà un principio ispiratore nel quotidiano.

Questo principio di ecologia mentale, prima che di economia, è di fatto completamente deviato dall’idea che considerato come massa informe, l’accumulo di molti animali, diventa solo carne, cioè alimento, in cui l’animale più debole, che in una dimensione umana sarebbe curato e accudito, viene invece selezionato ed eliminato; le piccole ferite e malattie, se non sono rischiose per la qualità del prodotto, al posto di essere considerate un problema da risolvere, sono trascurate e non viste, perché considerate una banalità appunto, nella massa (Fonte: Fabbriche di Carne).

Secondo questo principio, che per chi ha scelto di non consumare carne è un po’ il leit motiv che spiega la scelta, mentre per chi la consuma a volte non è noto nei suoi particolari, la definizione di qualità è solo ed esclusivamente legata al concetto di conformità alla legge, cioè quello che è legale è certamente buono e vendibile, si può fare, quello che non è legale invece non va fatto.

Eppure la semplificazione e la spersonalizzazione della professione, anche se si parla in questo caso di allevamento, dovrebbero avere maggiore peso nel giudizio sulla qualità di un lavoro e a sua volta di un prodotto. Abbassandolo notevolmente. Un fatto che al contrario, ad oggi, è stato considerato nel modo opposto, facendo passare purtroppo l’idea che nella massa, appunto nella grande quantità, la media del risultato sia migliorativa anche rispetto alla qualità.

Ben lontano dal dire se sia meglio essere vegetariani, vegani, carnivori, onnivori, è come dire che da un allevamento grande e massivo sicuramente ci si aspetta migliori prestazioni rispetto a quelle del piccolo allevatore .. che ogni giorno parla al suo maiale per essere certo che sia sereno e che stia bene.

Saggezza vuole che i processi culturali siano sempre lenti, se così non fosse, non sarebbero processi, bensì imposizioni.

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