Quando tirare la cinghia è di moda…

AUSILIA GUERRERA

Mentre gli Italiani e non solo, l’Occidente in genere, stringono la cinghia, economicamente barcamenandosi, gli stilisti rilanciano, cavalcando l’onda nostalgica del momento critico, nel loro linguaggio e nella loro peculiare estetica, con l’idea e lo stile della cinta in vita. Dal fascino retrò anni cinquanta ai giorni nostri: la cinghia è in voga, per questo autunno-inverno, nelle nostre mises. È un neo-vecchio-stile, che furoreggia romanticamente sulle passerelle e negli atelier di tutti gli stilisti. Per valorizzare il punto vita, meglio se vitino di vespa, come quello sfoggiato in passerella dalle modelle, niente di meglio e di più appropriato di cinturoni e cinturini, che invogliano a mantenersi in forma e richiamano magicamente l’attenzione sulla silhouette a clessidra. Queste le parole i commenti entusiastici delle esperte di moda. Il rapporto degli italiani con la moda di questi tempi magri non è però dei migliori.

Ma, supponendo di avere le tasche traboccanti di euro, saremmo ben liete di seguirla alla lettera (da provette fashion victim), per arrotolarci come salsicce in mises stravaganti dal sapore retrò come dive d’antan. Che la moda sia fatta di corsi e ricorsi, si sapeva; che il momento per esaltare questa area del corpo in particolare, con un sovrappiù di accessori barocchi, fosse dei peggiori, non è ben chiaro agli addetti ai lavori, che ne fanno una questione di stile, astratta e a sé stante, avulsa dalla realtà caotica critica e prosaica dei nostri tempi. Avvolti come sono nelle loro nebulose di tulle. Forse, nella sua fama egolatra, la moda non l’ha avvertita, oppure ha volutamente fatto orecchie da mercante. Ma è poi vero? Oppure, interprete dell’attimo fuggente, ha preferito scendere dall’Olimpo e confrontarsi mischiarsi alla realtà dei comuni mortali, per sottolineare, invece, il momento della “cinghia”? Chissà che non si arriverà, di questo passo, a vestire gli gnudi, di pirandelliana memoria, per la crescita esponenziale dei clochard. In quel caso, le mises lascerebbero davvero poco all’immaginazione.

Sottoponendolo, il momentaccio, all’attenzione generale, come contrappunto estetico-ironico, o come contrassegno citazione stilistica e sigillo visivo della nuova era. In uno stiloso e a volte kitzsche rimando alla prostrazione generale nella quale sguazzano milioni di individui, arrancando per arrivare a fine mese. Mentre spesso non si arriva neanche più alla terza settima. Alla settimana della moda, invece, ci si arriva eccome, sempre e comunque. Inesorabilmente. E meno male! Altrimenti chi ci raffigurerebbe in pose plastiche? Quale testimonianza lasceremmo di questi anni alle future generazioni, se non la moda? Termometro del buon gusto e a quanto pare barometro delle tasche vuote; ma in senso lato, figurativo. Volente o nolente. Che la civiltà occidentale stia vivendo un’impasse, una stasi e un balzo indietro, ce lo dicono anche gli ultimi diktat della moda. Testimone e rimando sublimato dei tempi bui. Dai cortei ai défilé, il passo è breve. Rubando subito la scena al dramma socio-economico: la crisi dalla piazza finanziaria impazza sulle passerelle dell’alta moda; e, la moda, come liturgia petulante roboante enfatica di un fatto oramai accertato (e pare per tutto il 2013 ancora imperante), si impone come scenografia che veste la crisi, proponendosi come estetica della crisi. Con la cinghia. Appunto. A ciascuno il suo, direbbe Sciascia. Facendola passare per una novità assoluta.

Come tutti gli incipit secolari, anche questo inizio secolo, fa capolino nella storia, invece, con giravolte e capriole all’indietro (anche di molti secoli, alle volte sfiorando il medioevo, parrebbe…), in tutte le sue espressioni e sfaccettature: guardare al passato è un segno dei tempi, che non si smentisce in nessun ambito. Nel caso della moda, si è tornati indietro agli anni cinquanta. Chissà se le donne, che non lavorano più, o comunque sempre meno, confinate in angusti spazi domestici, avranno l’ardire di cimentarsi – racimolando gli ultimi risparmi – in uno shopping matto e disperatissimo, quasi per chiudere in bellezza, e per fugare, stornare da sé questa maledizione-delle-tasche-vuote di inizio millennio, che come un anatema si abbatte sui destini dei nati col secolo. Oppure apriranno i loro guardaroba, cimentandosi in un ri-pescaggio, simil-vintage, tirando fuori cinture vecchie, con cui strapazzarsi gli abiti e strizzarsi la vita, in questo giro di vite d’inizio secolo, che strozza striminzisce la visione, rattrappendola in una prospettiva angusta e asfittica. Laddove la moda ci rimanda, sognanti, a corpi da dive e a una gioia del vivere, spumeggiante quanto irreale, che non corrisponde più affatto alla nostra realtà. Peccato! Se il dopoguerra era fiducioso, e risorgere dalle rovine e dalle macerie per la ricostruzione, era una sfida all’insegna della solidarietà e persino dell’allegria, che come fuoco erano covate sotto le ceneri dei palazzi e di intere città crollate sotto i bombardamenti, come fossero state di cartapesta, adesso i tempi sembrano ancora più angusti.

Neanche le modelle, corrucciate e stravolte da diete da anoressiche, non sorridono più alla vita, come le nostre dive, quando ammiccavano fascinose e solari attratte verso orizzonti luminosi; le model troppo filiformi per potere incarnare quel sogno anni cinquanta, sono cupe, sui cui esili fianchi si appoggiano lievemente cinghie (questo tocco poetico-riflessivo, senza gioia e persino, talora, senza luce, concepito come momento riflessivo dall’estrosa eteroclita fertile mente degli stilisti), sguscianti simili a fusciacche pronte a slacciarsi a ogni passo felpato, che ben poco hanno da esaltare su quei corpi androgini, più ossa che carne, davvero agli antipodi rispetto alle muse anni cinquanta. Se è vero che come sostiene Richard Martin, ex-curatore del Fashion Institute del Metropolitan Museum di New York: “Il punto vita è un’eccezionale zona malleabile, non protetta da ossa, della quale è facile prendere il controllo”, aggiungiamo noi (mentre ci facciamo le ossa…) che non è questo il punto.

Per quanto sia un punto sensibile. E che ciò non vale per la crisi, assolutamente poco malleabile e controllabile, in quanto zona critica per antonomasia. Evidentemente, pur in mezzo a tutti i possibili scambi e interferenze, ogni arte cammina per conto proprio. Così la moda e la vita…

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