Stampa estera e pedofilia nella Chiesa

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di MASSIMO TEODORI

Come mai la grande stampa internazionale accusa le gerarchie cattoliche e lo stesso Papa di gravi comportamenti sulla pedofilia nella chiesa? Hanno senso le giustificazioni della Radio vaticana che parla di “eclatante campagna diffamatoria”, di padre Lombardi, portavoce della Santa sede, secondo il quale “non si possono imputare a Roma responsabilità concrete delle autorità locali”, e quelle del cardinal Angelo Sodano (grande insabbiatore ? ) che, ripetendo Benedetto XVI, imputa alla stampa “un chiacchiericcio da cui la chiesa non si lascerà impressionare”?

La questione è più grave di quel che gli alti prelati vorrebbero far credere. Non mi pare che si possa dare credito a ciò che anche Luigi Accattoli propone sul Corriere della Sera, secondo cui l’escalation mediatica a dimensioni planetarie contro il Vaticano sarebbe dovuto alla “cristianofobia nel Sud” e all’ “atteggiamento anticattolico dei circoli protestanti ed ebraici nel Nord”. Ed è alquanto ridicolo etichettare le accuse di omertà e omissioni ai vertici della Chiesa con la tesi del complotto di cui farebbero parte i maggiori giornali dell’Occidente. Ci sarà pure una ragione se, all’unisono, The New York Times, The Guardian, El Pais, Le Monde, all’indomani del solenne messaggio pasquale di Benedetto XVI, hanno biasimato la mancata citazione degli scandali della pedofilia nella chiesa mentre si evocava “un orizzonte di conflitti e catastrofi”?

Ancor meno credibile è il ricorso alla “congiura ebraica” per il New York Times che ha pubblicato con scrupolo informativo i dossier su quel che è accaduto per anni negli Stati Uniti sotto gli occhi di vescovi e prelati cattolici; e per il Washington Post che per bocca del cattolicissimo Timothy Shriver del clan Kennedy dichiara che se il Benedetto XVI seguita così, “dovremo rivolgerci altrove”, dopo averlo paragonato al Nixon del Watergate.

Né è sostenibile che ci sia un collegamento cospirativo tra Der Spiegel che accusa il papa di aver “guastato i rapporti con molti cattolici tedeschi” e il Financial Times che pubblica una petizione di decine di migliaia di britannici che mette in rilievo come “il papa non solo si oppone al diritto delle donne all’aborto, ma anche al loro diritto alla contraccezione per prevenire l’aborto e alla protezione dalle discriminazione di lesbiche, gay, bisessuali e transgender”.

Dunque, perché tanti e così autorevoli giornali internazionali pubblicano servizi anti-papali? La risposta è semplice. La buona stampa occidentale affronta lo scandalo nella chiesa secondo le regole dell’informazione e dell’investigazione giornalistica, cioè come un cane da guardia che controlla la vita pubblica, non accetta bavagli, non concede nulla all’opportunismo, insegue la verità dei fatti, rifiuta le connivenze e, soprattutto, non guarda all’istituzione religiosa, cattolica o altro, come a un corpo privilegiato e separato, come avviene in Italia.

E’ perciò che tutto ciò che si è scritto fuori d’Italia, ha creato sconcerto in Vaticano. Perché la chiesa cattolica – con il corso controriformistico di Benedetto XVI– al fondo non accetta la separazione tra Stato e Chiesa e la secolarizzazione delle moderne democrazie. C’è un tale rifiuto delle regole liberali di fronte alla legge che, pur con episodi di pedofilia di tale gravità, le autorità ecclesiastiche non hanno mai sentito il dovere di avanzare una denuncia alla pubblica autorità, preferendo invece aggiustare le questioni con il diritto canonico.

Lo ha colto Peggy Noonan sul Wall Street Journal, citata da Enrico Beltramini sul Riformista: “Istituzioni che si sentivano invulnerabili, oggi sono sotto assedio non per partito preso… semplicemente perché rendano conto delle loro azioni alle loro vittime…E’ un altro imprevedibile effetto della modernità, la sua insopprimibile tendenza a livellare le differenze, a disconoscere ogni rendita di posizione”. Detto più semplicemente, non è più tempo che la chiesa cattolica pretenda di vivere secondo leggi diverse da quelle che regolano nel libero mondo occidentale la generalità dei cittadini, senza distinzione di sesso, razza, lingua, classe e religione.

da “PRIMA COMUNICAZIONE”, aprile 2010

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