Industriali a Parma e la competitività sempre invocata

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di FRANCESCO VIOLI

La settimana scorsa abbiamo visto a Parma circa 5000 industriali riuniti al Palacongressi. L’argomento: come rilanciare un paese in declino, consci che la crisi non ha fatto altro che aggravare una stagnazione in corso da quasi un decennio. Dal 2001 la crescita reale del PIL Pro Capite del paese è variata all’interno di una banda oscillante fra lo 0% e il -1%, che si è accompagnata ad una fase espansiva della spesa pubblica e del debito, rivelatasi poi completamente inutile ai fini dell’incremento dei consumi e degli investimenti. A Parma, Emma Marcegaglia non ha fatto altro che ribadire la principale preoccupazione del ceto industriale italiano: il sistema paese perde competitività. Gli industriali si aspettano dal governo riforme per far sì che l’Italia recuperi competitività e l’economia torni a crescere.

Il punto di quest’incontro è che, aldilà dell’elevato numero delle presenze (tra i quali anche Almunia, commissario UE alla concorrenza, Tremonti, Bersani, Epifani e Berlusconi,solo per citare i più noti al pubblico italiano) è andato in scena il solito spettacolo cui assistiamo da anni: Confindustria chiede riforme, il governo in carica le assicura. Purtroppo siamo sempre al punto d’inizio, come se stessimo giocando ad un perpetuo gioco dell’oca. Tremonti continua a sostenere, giustamente, che non bisogna allargare i cordoni della borsa e a queste parole sentiamo sempre aggiungere, che non si fanno riforme in periodi di crisi (tanto che Alfano nelle stesse ore annunciava una “Controriforma” delle lenzuolate volute da Bersani). Solo l’anno scorso spiegava per ragioni di bilancio il taglio ai fondi alle università e alle scuole, per poi ritrovare che i soldi originariamente destinati all’istruzione dirottati, per lo stesso ammontare, all’expo 2015 di Milano.

Il punto è che questo siparietto, aldilà delle filippiche di Berlusconi e il paternalismo di Tremonti, non può essere messo in scena tutti gli anni: da troppo tempo assistiamo al medesimo dramma. Se si vuole cambiare il paese, è necessario però che tutti il loro contributo. Il governo deve darsi una mossa: liberare il lavoro, riformare il sistema fiscale, abbattere i vari passaggi burocratici. Il punto è che sembra che questo governo sia la somma di vari interessi corporativistici incrociati. Non stupisce infatti la cancellazione delle lenzuolate di Bersani, bocciate senza mezzi termini come riforme che danneggiano sia i liberi professionisti che i consumatori, il continuo rinvio dell’innalzamento dell’età pensionabile, solo per fare alcuni esempi.

D’altra parta, anche gli imprenditori dovrebbero recitare una parte nella riforma del paese, ruolo che però sembrano ancora non intenzionati a recitare. Questi dovrebbero diventare protagonisti di un’innovazione e di una competitività che sembrano invocare come un dono dal cielo, dalle mani dello stato, quasi come una manna divina. Il punto è che qualora sia legittimo attendersi le riforme che necessitano l’intervento dello stato (su tutte: liberalizzazioni delle professioni e riforma dell’amministrazione pubblica) le imprese dovrebbero fare di più per innovare, aldilà dei giusti propositi di Emma Marcegaglia.

Il settore industriale italiano ha sofferto per decenni questo male: l’atomismo. Nel G7 L’Italia è il paese con il minor numero di grandi imprese e col maggior numero di Piccole e Medie imprese, prevalentemente specializzate in settori tradizionali con bassa intensità tecnologica. La globalizzazione e l’ingresso nell’Euro non hanno fatto altro che mettere in luce il fatto, che questa polverizzazione dell’industria italiana porti proprio ad una limitata capacità produttiva e ad un’insufficiente spesa in Ricerca e Sviluppo. Le stesse imprese che si appellano alla competitività sono le stesse imprese che non investono adeguatamente né in ricerca applicata, né tanto meno in ricerca di base. Se guardiamo anche la veste giuridica, noteremo che c’è un assoluta prevalenza della veste giuridica della società di persone e della S.r.l che, il più delle volte denota che si trattano di società a gestione padronale o familiare, il cui assetto non permette a membri esterni alla famiglia di fare carriera o esprimersi all’interno dell’impresa. E’ un modello di gestione che storicamente, nella maggior parte dei casi, non permette prospettive di carriera a giovani laureati, né denotano l’intenzione da parte della famiglia dirigente, di crescere di dimensioni nel medio e lungo termine, di fondersi o mettersi in rete con altre imprese nello stesso settore. Una prova è lo scarso numero di laureati assunti nelle varie PMI del paese. Il paradigma d’eccellenza italiano, quale è stato ed è tuttora quello dei distretti, soffre purtroppo delle stesse carenze strutturali. In più non ha ancora il Know-how (leggasi, personale e strutture qualificate) e la coordinazione necessaria per sostenere la competizione nei mercati esteri in continua evoluzione.

In sintesi, anche gli industriali devono recitare la loro parte. Rendere il sistema dei distretti più competitivo introducendo maggiori contenuti tecnologici e umani, creare un collegamento stabile con il mondo universitario, rafforzare il sistema paese creando un network con tutti gli altri distretti d’Italia e d’Europa, continuare a puntare sulla localizzazione e sulla collaborazione con gli Stakeholders. Già molti imprenditori hanno intuito che questa è la via maestra per battere la competizione asiatica e per rimanere nel gruppo dei leaders e non rassegnarsi ad una lenta ma progressiva decadenza.

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