La nuova Unione Sovietica di Putin

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di ANTONIO PICASSO

Scorrendo i fatti che hanno coinvolto la Russia in queste ultime due settimane, si ha l’impressione che Mosca si stia preparando per un nuovo rigurgito di orgoglio. Come due anni fa contro la Georgia, oppure ancora prima contro l’Ucraina. A quasi vent’anni dalla piena disgregazione dell’Unione Sovietica, i vertici del Cremlino – soprattutto il suo numero 2, il Primo ministro Vladimir Putin – mostrano tutte le patologie che erano proprie della nomenclatura del Pcus. Un nazionalismo espansionistico oltre i confini naturali dell’ex Impero sovietico, la psicosi dell’accerchiamento, ma soprattutto il tentativo di percorrere altre strade rispetto a quelle dove l’orso russo si è visto costretto a chinare il capo di fronte alla potenza statunitense. Il nuovo trattato per il disarmo nucleare, firmato a Praga la scorsa settimana, è stato osannato come un nuovo passo per lo smantellamento degli arsenali tuttora operativi e che restano un retaggio della guerra fredda. Il Presidente Usa, Barack Obama, e il suo omologo russo, Dimitri Medvedev, hanno trovato un compromesso nel rinunciare entrambi a oltre 1.500 testate missilistiche nucleari. È logico che questa decisione torni più favorevole agli Stati Uniti, che dispongono di una capacità economica maggiore per poter effettuare una futura ed eventuale accelerazione nel campo degli armamenti. Questo Putin lo sa bene. Il Premier russo si ricorda i motivi della fine della guerra fredda e della sostanziale sconfitta dell’Urss. Motivo, questo, che lo ha portato a mantenersi in ombra sia nell’ultima fase dei negoziati, sia nel corso delle celebrazioni del trattato a Praga. Nell’occasione il tandem Medvedev-Putin si è separato. Ed è paradossale come quest’ultimo abbia preferito partecipare alle celebrazioni del 70 esimo anniversario del massacro di Katyn – altra pagina nera nella storia dell’Urss – piuttosto che assistere impotente alla disgregazione del “tesoro atomico” dell’Impero in cui lui, giovane agente del Kgb, si era fatto le ossa.

Lasciando da parte questi sentimentalismi individuali, per alcuni aspetti poco appropriati per una mens algida com’è quella del Premier russo, non sono passati inosservati i “ma e però” sottolineati verbalmente dal Cremlino prima e dopo la firma del trattato. Il Ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, aveva mantenuta aperta la possibilità che la firma potesse essere rinviata ulteriormente, nel caso il suo governo avesse trovato anche un minimo “cavillo” sfavorevole. Lo stesso Presidente Medvedev ha detto che, oltre allo smantellamento dei missili contenuti nei silos di entrambi gli arsenali, è necessario ragionare anche in termini politici e contenere le reciproche capacità Abm (anti ballistic missile). Un messaggio, questo, chiaramente rivolto agli Usa e alle loro intenzioni di installare alcune basi di missili Patriot in Europa orientale. Finché Mosca non sarà matematicamente certa della rinuncia a questo progetto da parte del Pentagono, è possibile che l’accordo di Praga non venga ratificato.

Consapevoli di questi pro e contro e mossi dall’ambizione di tornare a essere la Santa Madre Russia, è possibile che alcuni dirigenti del Cremlino, guidati proprio da Putin, stiano realizzando il classico “Piano B”. Questo sarebbe di natura parzialmente ridotta, dalle velleità puramente regionali, ma altrettanto ambizioso. Da un punto di vista geografico, per Mosca il grande cruccio post-Urss è stato quello di aver perso il controllo dell’Europa orientale da un lato, insieme al Caucaso e all’Asia centrale dall’altro. È evidente quanto interessi al Cremlino il recupero di queste tre macroaree, se non in modo diretto, attraverso politiche ad hoc, per esempio puntando sul settore energetico. È emblematico il caso dell’Ucraina e dei ripetuti ricatti a Kiev, per il passaggio del gas siberiano sul suo territorio, in base a prezzi e imposizioni dettate unilateralmente da Gazprom. Alla fine del 2004, Mosca era giunta alla convinzione che l’indipendenza del Paese dell’Europa orientale fosse ormai un dato di fatto. Un suo governo a lei compiacente tuttavia avrebbe colmato questo gap strategico. L’elezione di un europeista e filo-Nato come Viktor Yushenko però fece saltare i piani moscoviti. La “rivoluzione arancione” portò quest’ultimo alla leadership del Paese, senza che Mosca potesse intervenire. In questi cinque anni, Yushenko ha tenuto duro, fra gli aumenti di prezzo del gas russo, che ogni inverno si è fatto più caro, e una classe dirigente nazionale a lui sempre meno favorevole. Con le elezioni dello scorso febbraio però, ha dovuto lasciare il passo a Viktor Yanukovic: amico fidato della Russia ed esplicitamente favorevole alle sue mire energetiche. Finora il neoeletto non ha manifestato un’effettiva inversione di rotta rispetto al suo predecessore. D’altra parte, si può supporre che oggi il Cremlino di Mosca guardi il Cremlino di Kiev con fiducia per la ritrovata amicizia. Tant’è che la scorsa settimana Putin si è incontrato con il suo omologo ucraino, Mykola Azarov, per un confronto bilaterale di stampo economico, soprattutto in ambito energetico.

Ben più delicata è la questione polacca. La presenza del Primo ministro russo alle celebrazioni di Katyn è stata accolta positivamente da Varsavia. Il gesto di apertura è stato interrotto però dalla tragedia nella quale è deceduta praticamente l’intera classe dirigente polacca. Gli avvenimenti sono ancora suggestionati dalla emotività collettiva e le relative indagini sono solo all’inizio. Vero è però che il defunto Presidente polacco Kaczynski era uno strenuo difensore dell’ingresso del suo Paese nella Nato e nell’Unione Europea. Come è avvenuto. Sua inoltre era stata la disponibilità all’installazione delle basi missilistiche Usa sul territorio nazionale, oggetto di discordia tra Mosca e Washington. La Polonia ha sempre temuto – e subìto – l’aggressività del potente vicino orientale. Oggi, a Varsavia con le elezioni presidenziali previste a giugno, si potrebbero aprire scenari nuovamente favorevoli alla Russia. Questo significa una sua potenziale proiezione nel cuore dell’Europa. La coincidenza vuole peraltro che, proprio la scorsa settimana, Russia e Polonia abbiano firmato un accordo per una fornitura di gas fino al 2037. La decisione, vantaggiosa ovviamente per Gazprom, alleggerisce le tensioni che erano emerse anni fa in seguito alla nascita del progetto “North Stream”, il gasdotto russo-tedesco che bypasserebbe la Polonia. Con Kiev e Varsavia più accondiscendenti, Mosca riaprirebbe una linea politica squisitamente filo-europeista, iniziata ancora da Pietro il Grande, proseguita a fasi alterne da alcuni zar e soprattutto propria dell’Urss post-staliniana. La Russia ha sempre sentito la necessità di mostrare ai governi occidentali tutta la sua forza.

Per questo però, ha bisogno di avere le spalle coperte. Caucaso e Asia centrale quindi non devono essere motivo di preoccupazione. Sui recenti scontri in Kirghisistan si stanno addensando le ombre della strumentalizzazione del Cremlino, che vorrebbe riprendere il controllo delle Repubbliche ex sovietiche, con la stessa metodologia adottata per l’Ucraina: influenza della Gazprom sulle politiche energetiche nazionali e successivo posizionamento degli uomini di fiducia nei punti chiave delle istituzioni locali. Così facendo, la Russia creerebbe un cordone sanitario intorno al “caos Asia”, epicentro dell’Islam più radicale che sta lentamente penetrando negli Stan countries, la cui popolazione è comunque musulmana.

Il risiko putiniano ha tre debolezze però: la nuova insorgenza terroristica di matrice islamica in Caucaso, l’inaffidabilità degli oligarchi che fanno parte della corte del Premier – e che devono essere controllati rigorosamente – e il crescente interesse verso la Russia da parte delle organizzazioni sui diritti umani. Dopo l’attentato alla metropolitana di Mosca due settimane fa, il Governo sta ricorrendo a misure drastiche, mediante rappresaglie punitive in Daghestan e altre aree del Caucaso. La politica dell’“occhio per occhio” – che è sempre stata caratteristica di Mosca – potrebbe essere controproducente, se non è appoggiata dal dialogo fra le istituzioni centrali e i capi mujaheddin più “acquistabili”. A questo va aggiunto il necessario allineamento russo alla cooperazione internazionale contro il terrorismo. Sul fronte delle oligarchie finanziarie, la vicenda del miliardario azero Telman Ismailov spiega come il libero mercato interno sia in realtà manovrato dal Primo ministro russo. Ismailov, magnate del settore alberghiero, era caduto in disgrazia lo scorso anno per la sua scelta di inaugurare in Turchia l’hotel più costoso d’Europa (1,4 miliardi di dollari). Fu un investimento all’estero quando Mosca era nel pieno della recessione finanziaria e che fece perdere le staffe a Putin. Ne conseguì che i mercati moscoviti di Cerkizovski, di proprietà del tycoon azero dove lavorano oltre 100 mila persone per lo più cinesi, furono posti sotto sequestro perché ritenuti un centro di smistamento del contrabbando e dell’immigrazione clandestina. All’inizio di questo mese però, Putin ha assegnato allo stesso Ismailov la responsabilità dell’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2014, che si terranno nella cittadina cecena di Coci. Putin così ha calato sull’oligarca indisciplinato prima la pena e poi la possibilità di riscatto. Un gesto da “piccolo padre” un suo sudditi. L’ultimo nodo, quello delle Ong straniere, è il più difficile da sciogliere. A suo tempo l’Urss era impermeabile alle accuse di censura che provenivano da oltre cortina. Oggi l’eliminazione fisica di un oppositore – vedi il caso Politkovskaja, la giornalista dissidente uccisa nel 2006 – non passa inosservato. Il Cremlino deve trovare un’alternativa quindi alle maniere radicali e “spicce” che appartenevano al Kgb. Da un lato per conservare l’apparente trasparenza delle sue istituzioni, dall’altro per contenere la tenacia delle opposizioni liberal-democratiche. Ma questo è un compromesso che nessun regime autoritario è mai riuscito a realizzare.

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