Questo uno degli insegnamenti fondamentali che ci ha lasciato l’ex Presidente socialista dell’Uruguay, José “Pepe” Mujica. Il Presidente povero e dei poveri, che ha governato il suo Paese dal 2010 al 2015 (e fu Ministro dell’Agricoltura e della Pesca dal 2005 al 2008). Risollevandone le sorti e attuando politiche sociali e socialiste, sul modello autogestionario e libertario.
Un modello che supera l’insana “ideologia del lavoro” ad ogni costo. E che supera il conseguente “sfruttamento dal salario”. Un modello che guarda, invece, a quello che Mujica stesso definì “un cammino di lotta al servizio e in solidarietà con gli altri esseri umani”. Ovvero “una politica permanente a favore di chi ha la volontà di lavorarla”, ad esempio organizzando “colonie di terra pubblica in cui si paga un affitto”.
Un modello non dissimile da quello della Jugoslavia di Tito, fondato sull’autogestione delle imprese e della Libia del Raìs Mu’Ammar Gheddafi, laico e socialista ideatore della Terza Teoria Universale, ovvero della “Repubbica delle masse” e della “democrazia diretta” (Jamahiriyya), che fu attuata nell’ambito di Congressi e Comitati popolari aperti a tutti i cittadini.
Gheddafi, nel suo “Libro Verde”, ovvero il suo saggio sociale e politico fondamentale, scrisse, in merito all’organizzazione sociale e del lavoro: “Nella società socialista non ci sono infatti possibilità di produzione individuale al di sopra del soddisfacimento dei bisogni personali. In essa non è permesso di soddisfare i propri bisogni a spese degli altri. Le istituzioni socialiste lavorano per soddisfare i bisogni della società. (…). A ciascun individuo è consentito di risparmiare ciò che vuole, soltanto nell’ambito del proprio fabbisogno, in quanto l’accumulo di risparmio in misura maggiore, è a detrimento della ricchezza collettiva. La gente abile e intelligente non ha il diritto di appropriarsi delle unità di ricchezza altrui per via della propria abilità e intelligenza, tuttavia può utilizzare quelle qualità per soddisfare i deficienti e gli incapaci non perciò devono essere privati di quella stessa parte della ricchezza sociale di cui godono i sani”.
Egli ritenne, dunque, in concordia con il socialismo delle origini (da Saint-Simon, a Marx, sino a Pierre Leroux, Proudhon e così via), che i lavoratori dovessero essere considerati produttori, non più dei salariati, ovvero degli sfruttati. E dunque, ciò che loro producono, dovesse essere considerato di loro stessa proprietà.
Il salario, per Gheddafi (e in realtà per tutti i socialisti, sin dalla fondazione della Prima Internazionale dei Lavoratori, nel 1864), è indice di sfruttamento e un lavoratore/produttore non può essere schiavo di nessun padrone. Sia esso un padrone privato o statale.
Oltre a ciò, il Raìs, ritenne che nessuno potesse possedere più di quanto gli fosse necessario per vivere. Ciò perché – non essendo le risorse illimitate – l’accumulazione della ricchezza da parte di alcuni è fonte di ingiustizia, corruzione e segna il sorgere della società dello sfruttamento.
I concetti fondamentali del socialismo originario o autogestionario, inveratosi sia nella Jugoslavia titina che nella Libia di Gheddafi, ma per molti versi anche nell’Argentina peronista; nella Cuba del Che e Fidel Castro; nell’Egitto nasseriano e via via nei modelli più recenti del Socialismo del XXI Secolo latinoamericano (dal chavismo sino al modello uruguayano del Frente Amplio di Mujica, al modello del Buen Vivir ecuadoriano, sino, in parte, al socialismo boliviano di Evo Morales), propone dunnque un nuovo modello di sviluppo.
Uno modello che supera da una parte il produttivismo e dall’altra il capitalismo. Poponendo che il cittadino/lavoratore viva del necessario e lavori a beneficio della società e dei bisognosi e non già per un salario. E che ciascuno sia proprietario del proprio lavoro, nell’ambito di attività economiche socialiste autogestite.
Moltissima strada vi è da fare. Soprattutto per “decolonizzare l’immaginario”, come direbbe l’economista Serge Latouche. Per creare un’alternativa all’assurdo modello di sviluppo occidentale, capitalista, fondato sul danaro e sullo sfruttamento del lavoro.
Lavoro che toglie tempo libero; che lega a un datore di lavoro (e ad eventuali ricatti); che è utile solo a generare profitto e conseguente sfruttamento delle risorse economiche, sociali, ambientali e non già per aiutare la comunità stessa e le sue necessità primarie e fondamentali. Necessità che saranno sempre maggiori e sempre più essenziali in periodi di pandemia.
Necessità che non sono legate al vil danaro, che è uno strumento per sua natura schiavista, in quanto rappresenta un debito nei confronti di qualcuno (ed è il maggiore e più perverso strumento di perdita di sovranità dei cittadini e dei Paesi).
Una società sana, socialista, autogestita, libera e libertaria, è una società che supera i vincoli imposti dall’egoismo umano. Che supera il sistema del danaro (e della conseguente usura o interessi sui debiti/prestiti). Che supera il sistema del lavoro salariato. Che supera il sistema del consumismo e della distruzione delle risorse e del Pianeta.
Per approdare a qualcosa di antico, ma allo stesso tempo di genuino, comunitario, umanitario, spirituale, ecologista e socialista al contempo.
Come ancora oggi avviene in alcune società matriarcali, che vivono su quella che l’antropologo Marcel Mauss definì “economia del dono”. Sullo scambio reciproco, alla pari. Sul baratto. Sul lavoro in comune e a beneficio del prossimo.
“Per far uscire”, come ebbe a dire lo stesso Latouche, “l’umanità dalla miseria psichica e morale” nella quale vive da secoli. Semplicemente per aver adottato un modello che sdogana un’infezione della psiche umana chiamata egosimo e accumulo.
Luca Bagatin