“Se alzo un dito Kabul esplode”

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di MATTEO SMOLIZZA

[riportiamo l’intervista fatta dal nostro amico Matteo Smolizza a Abdullah Abdullah così come pubblicata su La Stampa del 21.11.2009 – pg 15]

Abdullah Abdullah siede nella grande sala della casa di Kabul dove vive ed è nato 49 anni fa. Appassionato di poesia persiana, ha una grande collezione di francobolli iniziata da bambino. Sulle pareti sono appese antiche calligrafie.

Dottor Abdullah, dopo aver denunciato i brogli e imposto il ballottaggio, l’Onu ha approvato l’elezione di Karzai che ha subito chiesto una sua partecipazione ad un «governo di unità nazionale». Che cosa farà?
«I motivi per cui l’Onu ha riconosciuto la posizione di Karzai sono chiari: riguardano la stabilità del Paese. Penso che in questo momento non avesse altra scelta. Il momento giusto per intervenire era il 22 maggio, quando Karzai, secondo la Costituzione afghana, aveva terminato il proprio mandato. Bisognava stabilire un governo provvisorio sotto la supervisione Onu e impegnarsi per elezioni corrette.
La comunità internazionale, però, ha temuto di non riuscire a fronteggiare l’insurrezione talebana attraverso un governo a guida straniera. Oggi il governo è ancora più debole. La ratifica internazionale è solo uno dei necessari punti di legittimazione. I più importanti sono il credito presso la popolazione e le performance reali».

Collaborerà con Karzai?
«No. L’ho incontrato un mese fa e abbiamo parlato per due ore e mezza: continuiamo a stare su due binari differenti. Mi era stato chiesto di partecipare alla festa successiva alla cerimonia di insediamento del presidente e ovviamente ho rifiutato. Il mio posto è all’opposizione».

Nelle scorse settimane ha incontrato gli ambasciatori dei principali Paesi impegnati in Afghanistan, tra cui l’Italia: qual è ora il suo obiettivo?
«Credo sia chiaro che sono impegnato in modo costruttivo per migliorare la situazione e non agisco per interesse personale. Perciò non ho chiamato la gente in piazza per dimostrare contro Karzai: mi sarebbe bastata una sola parola, una singola chiamata pubblica in televisione per rovesciare la situazione. Le dimostrazioni di piazza sono un efficace strumento democratico, ma non ho agito a causa della fragilità della situazione. Di chi avrei fatto il gioco? Se oggi l’Afghanistan perde l’appoggio internazionale, ha perso tutto, perché le strutture dello stato non sono in grado di mantenersi da sole».

La Comunità internazionale ha richiamato Kabul su due punti fondamentali: la corruzione, e soprattutto la mancanza di un progetto per sollevare i poveri dalla miseria che spinge molti disperati nelle file dei taleban.
«Più del 60% della popolazione vive nelle campagne e spesso arriva appena a sopravvivere. Inoltre, Herat è una cosa, Mazar-e-Sharif un’altra. All’interno di una stessa provincia, i centri urbani, le campagne e le montagne sono cose diverse. Un piano di sviluppo efficiente è innanzitutto l’apertura a strategie pensate localmente e adeguate ai diversi contesti. Il governo deve avere solo un ruolo di coordinamento».

Con la caduta dei taleban c’è stata una nuova esplosione del mercato dell’oppio.
«La situazione è molto complicata. Innanzitutto, c’è una grande differenza tra i contadini e i politici, o gli amici dei politici.
Non si può chiedere ai contadini di bruciare i propri campi di papaveri, senza garantirgli reddito con un’altra coltivazione. Invece ci vuole tolleranza zero con i funzionari di alto livello e i mercanti di narcotici. Questo però è possibile solo se il governo è legittimato da un vasto consenso popolare, se le istituzioni locali sono valide e quindi c’è un effettivo controllo del territorio e delle microeconomie».

Il Pakistan ha tentato una cooperazione con i talebani lasciando loro alcune aree di autogoverno dove vige la Sharia. Karzai sembra perseguire questa strada, invitando i taleban a far parte del processo di pace. Secondo lei è possibile?
«Questa strategia in Pakistan ha fallito. I taleban devono essere sfidati sul campo dei risultati. Loro operano in mezzo alla gente, alla stessa gente con cui siamo in contatto noi: se perdiamo la gente comune, abbiamo perso la guerra. Quattro anni fa, qui non c’erano taleban, ora sono intorno a Kabul. Oggi sono la parte vincente. Il governo, più che proporsi l’obiettivo di raggiungere i taleban, dovrebbe cercare di raggiungere la gente».

Oltre alla Coalizione, quali forze straniere stanno influenzando il futuro dell’Afghanistan?
«Iran e Pakistan e subito dopo India, Russia e Cina, ed è naturale perché queste potenze si trovano ai nostri confini».

I diritti di sfruttamento dei grandi giacimenti di rame a Sud di Kabul, la seconda riserva mondiale di questo metallo, sono in mano alla Cina, ma l’area è protetta da 1500 poliziotti afghani, a carico delle potenze occidentali. Le sembra normale?
«Lascio che siano i Paesi occidentali a decidere le ragioni e gli obiettivi del loro intervento (sorride), ma è ovvio che l’impegno di ogni Paese ha origine in un vantaggio che pensa di trarre per esempio in termini di sicurezza globale, di stabilità dell’area o anche di business diretto. Il fatto che ci siano Paesi che sanno trarre un beneficio maggiore dalla situazione non è un problema per noi, fino a che è previsto un vantaggio anche per il popolo afghano».

Il presidente Obama prima di decidere un aumento delle truppe ha chiesto una «exit strategy» e Karzai ha detto che il Paese sarà responsabile della propria sicurezza entro cinque anni.
«Gli afghani stanno prendendosi progressivamente la responsabilità della sicurezza del Paese, e questo naturalmente alleggerisce le spalle ai Paesi alleati. Ora, però, di sicuro non siamo autosufficienti. La speranza è che il tempo che ancora ci accorderete per aiutarci sia sufficiente a costruire qualcosa che duri».

Lei è stato uno dei più diretti collaboratori di Massud ed ha combattuto contro i russi e al tempo della guerra civile tra i Mujaheddin. Che cosa le è rimasto di quella esperienza?
«Mi sono unito a Massud nel 1985 come medico; presto sono diventato suo segretario e poi suo consigliere. La vita di Massud è divisa in due periodi, la resistenza contro i sovietici e la resistenza contro Al Qaeda, cioè contro i taleban. In questa missione oggi sono coinvolti da 40 a 60 Paesi. Ed è coinvolta la mia vita, quella di mia moglie ed il nostro futuro, i nostri quattro figli, del più piccolo dei quali ora si sentono le grida, perché è ora di cena. Massud credeva alla pace e alla possibilità di creare una società più giusta, ma non aveva paura di fare la guerra e rischiare la vita per una giusta causa.
Lui ha combattuto ed è morto perché l’Afghanistan potesse essere uno stato islamico moderato libero e indipendente.
Dopo 25 anni al potere, non aveva alcun possesso personale: l’unico lascito è stato il giardino dei suoi genitori nel Panjshir. La sua eredità spirituale invece è stata enorme. Era un ottimo amico. Queste sono le cose che mi ha insegnato e che oggi cerco di realizzare».

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