“Dolceroma”, ritratto divertito e feroce della “fauna” romana (non solo cinematografica…)

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C’è nelle sale un film italiano diverso da molti, da troppi altri: non un dramma da tinello, niente modeste crisi esistenziali, niente cinquantenni irrisolti. Al contrario, una galleria di figli di puttana: giovani e non, potenti e potenti-wannabe, criminali conclamati e criminali aspiranti, tromboni e gattemorte. Tutto descritto senza moralismo, ma con uno sguardo sorridente e feroce.

Per queste ragioni, nonostante i suoi evidenti limiti, si segnala – e per molti versi si raccomanda – “Dolceroma”, prodotto e interpretato da Luca Barbareschi, per la regia di Fabio Resinaro.

La storia (starei per dire: il pretesto) è la realizzazione di un film tratto dal romanzo di un giovane autore. Si inseriscono nel plot l’assassinio dell’attrice protagonista e le minacce – vere? presunte? entrambe le cose? – della camorra, con diversi colpi di scena e un finale a sorpresa.

Ma la scombiccherata trama, ovviamente, conta fino a un certo punto. Così come alcune interpretazioni non del tutto convincenti: forse monocordi e unidimensionali Valentina Bellè e Lorenzo Richelmy, troppo caricaturale l’investigatore Francesco Montanari, decisamente credibili invece – pur nelle parti eccessive ed estreme loro assegnate – Claudia Gerini, Armando De Razza, Luca Vecchi e Libero de Rienzo. Dilaga (ma non infastidisce: al contrario, dà il meglio di sé) il mattatore Luca Barbareschi, produttore anche nel ruolo che interpreta sullo schermo.

Sta lì, in quella maschera, nel Luca Barbareschi/Oscar Martello perso tra vestaglie improbabili, gessati inquietanti, sigari fuori misura, e inevitabili “aiutini” chimici, il cuore del film. E non riguarda solo il cinema. Potresti metterci un potente dell’economia, di una certa politica, dell’editoria: e, al di là degli eccessi caricaturali, ritroveresti quell’umanità “romana” lì. Una vita al bivio (al trivio?) tra finto, falso e millantato; la bugia come dimensione ormai intima ed esistenziale; l’incapacità di andare oltre la pagina 30 di un libro (scelto anzi per il colore della copertina); una vitalità estrema volta alla furbata, al “colpo”, alla “rapina”. Barbareschi è perfetto nell’assorbire quasi fisicamente il peggio di una certa Roma, potente eppure “cafonal” (direbbe Dagospia), straricca ma miserabile, immortale perché ormai priva di anima.

Di Arturo Prosperi in ATLANTICO quotidiano QUI

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