1994: l’anno in cui tutto (non) cambiò

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L’uscita della nuova serie televisiva “1994” con Stefano Accorsi fa tornare alla mente un periodo della nostra storia che, manco a dirlo, è stato molto discusso. Si tratta infatti dell’anno fondativo della Seconda Repubblica, del berlusconismo e del bipolarismo.

Fu proprio la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi a definire un’epoca che bene o male è durata fino ai giorni nostri. Il 26 gennaio 1994 con un video trasmesso quasi a reti unificate dal titolo “Per il paese che amo”, Berlusconi comunicò a tutti il suo ingresso in politica come leader di Forza Italia e di quel fronte moderato che era ormai orfano di leader e partiti, travolti come lui stesso disse nei 9 minuti che cambiarono l’Italia “dallo scandalo del finanziamento illecito dei partiti”.

Berlusconi capì che la forma-partito novecentesca era destinata a esaurirsi di lì a poco, e che la nuova politica avrebbe preso toni personalistici e un linguaggio non più paludato e politichese ma vicino al comune sentire del popolo. Parallelamente, l’evoluzione della destra missina guidata da Gianfranco Fini, e della Lega Lombarda di Umberto Bossi e Roberto Maroni, aveva dato spazio a una nuova destra che vedeva al sud Alleanza Nazionale ereditare le vecchie clientele democristiane legate allo stato, e al nord la Lega approfittare del crollo del Pentapartito per dare voce e sfogo alle istanze autonomiste delle regioni più progredite del Paese.

La sinistra visse questo mutamento con il terrore dell’arrivo dei nuovi barbari e senza capire che, nonostante le inchieste di Tangentopoli avessero ridotto ai minimi termini i suoi avversari, la forza del messaggio di Berlusconi e della Lega l’avrebbe consegnata nuovamente all’opposizione. Il suo leader di allora, Achille Occhetto, fautore della cosiddetta “svolta della Bolognina”, si presentò al confronto televisivo contro un impeccabile Berlusconi in doppio-petto con un orribile completo marrone, del tutto inadatto davanti alle telecamere. Parve un dinosauro di un’altra epoca storica legata alle vecchie ideologie, a un vecchio linguaggio e alla politique-politicienne tanto odiata dalle masse. Berlusconi se lo mangiò augurandogli una “lunga vacanza all’opposizione” mentre lui sarebbe stato occupato a governare l’Italia.

Ma la rivoluzione berlusconiana durò poco o nulla. Certo, il Cavaliere potè contare sui successi del suo Milan, autore quell’anno di una strepitosa doppietta campionato-champions, che proiettò la sua immagine di vincente in Italia e non solo. Quando però la Lega negò la fiducia al Governo dopo 6 mesi di alti e bassi, conditi da clamorosi avvisi di garanzia (finiti successivamente nel nulla), decreti leggi contro la carcerazione preventiva che videro un pronunciamiento del pool di Mani Pulite in diretta televisiva, e una certa difficoltà nel trovare la quadra nella maggioranza di governo sui provvedimenti più importanti, Berlusconi dovette gettare la spugna. Al suo posto, con un classico “ribaltone” si formò un governo guidato da uno dei suoi ministri, Lamberto Dini, ma con una maggioranza totalmente diversa.

Già alla sua nascita la Seconda Repubblica, quella del cambiamento, si presentò monca. Alla sua base mancò un atto fondativo – come per esempio una riforma costituzionale ampiamente condivisa – da cui trarne forza e legittimità politica. Berlusconi si adagiò su un centrismo erede del Pentapartito e non osò mai impostare riforme economiche ispirate al thatcherismo e al reaganismo, come aveva promesso. Quando ci provò, i sindacati portarono – legittimamente, ma contro gli interessi delle generazioni future – un milione di persone in piazza. La sinistra di Occhetto venne sostituita dall’Ulivo prodiano, ma rimase sempre ostaggio della sua costola sinistra, che nel 1998 decretò la fine dell’esperimento di centro-sinistra con Bertinotti, e nel 2008 si ripetè in maniera addirittura tragicomica con i peones Rossi e Turigliatto.

Berlusconi, che andava dicendo “Le majoritaire, c’est moi”, “il maggioritario sono io”, si rese conto che l’Italia era malata di proporzionalismo e accordicchi e si adeguò. Finì la sua avventura da premier nel 2011 con una maggioranza di “transfughi” dall’Italia dei Valori, il partito fondato della sua nemesi storica, Antonio Di Pietro. La spinta anti-sistema, manettara e populista di quegli anni si è ampliata di recente con l’ingresso nel panorama politico italiano del Movimento 5 Stelle, vero erede dei magistrati di Mani Pulite, dell’anticapitalismo del PCI, e dell’antipolitica generalizzata portata avanti dai media. Usando una citazione super-inflazionata tratta dal Gattopardo, lo straordinario romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Chissà, forse l’immobilismo è l’elisir di lunga vita della nostra cara e amata Repubblica italiana.

Di Daniele Meloni in Atlantico Quotidiano QUI

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