Quel geniaccio di scozzese aveva previsto tutto!
John Stuart Mill, infatti, nella riflessione ottocentesca sull’essenza del nazionalismo, discordante rispetto a quella di Lord Acton all’interno del mondo liberale britannico, rimarcò l’importanza dei “comuni vincoli di simpatia” e dei “comuni sentimenti”, costituenti il “sentimento nazionale” di un popolo, nell’accettare che un’autorità governi il territorio.
Nelle Considerations on Representative Government, scritte nel 1861, il filosofo liberale pose quale “fondamento più vivo” del sentimento nazionale “l’identità del destino politico, la presenza di una comune storia nazionale e quindi di una comunità di tradizioni”.
Partendo da tale considerazione, J. S. Mill esaminò tutte le possibili problematiche nel rapporto tra un governo, nazionale o federale che sia, e il grado di soddisfazione dei governati, a cui va garantita, in u sistema democratico, la libertà di “associarsi come meglio desidera”. Dato il potere decisionale del popolo, è evidente come l’adeguatezza di una istituzione possa essere oggetto di valutazione diretta, al punto da minarne la stessa sopravvivenza.
Ed è proprio quello che è accaduto il 23 giugno nel Regno Unito di Gran Bretagna, vista la volontà popolare di lasciare l’Unione Europea, ritenuta inadeguata dal 52% dei britannici che sono andati a votare (il 72% degli aventi diritto).
C’è un passo, nel saggio di J. S. Mill, che appare come una visione profetica di quella che sarebbe stata l’Unione Europea:
“In un popolo senza legami di amicizia, sprovvisto di unità linguistica, viene a mancare una opinione pubblica omogenea, essenziale all’azione di un governo rappresentativo. In ogni zona del paese verrebbero a formarsi opinioni diverse e movimenti politici diversi. I leader politici avrebbero il consenso di una parte del paese e non di altre. Le differenti nazionalità non leggono gli stessi libri, giornali, pubblicazioni, non ascoltano i medesimi discorsi. Una nazionalità ignora le aspirazioni, le opinioni dell’altra”. Si potrebbe anche proseguire con la citazione, ma già queste parole fanno capire come, già in una nazione, a maggior ragione in una unione di nazioni, i rischi che il progetto fallisca, perché alla base manca nel popolo un senso di appartenenza forte, sono altissimi.
Il filosofo liberale scozzese auspicò per l’Europa, al fine di contemperare le diverse realtà storiche e culturali, una federazione politica, a condizione che i fattori ambientali e storici, con le loro differenze, venissero conservati e che vi fosse una tutela di tipo costituzionale delle esigenze di diversità dei cittadini, per supportare il processo di assimilazione comunitaria.
“A meno che il tentativo non sia opera di quanti di proposito simulano il cambiamento”. Tale ultima considerazione potrebbe essere frutto di analisi sui reali intenti di quanti hanno deciso di creare un sistema comunitario quale quello attuale, ma sarebbe un processo alle intenzioni e la sensazione è che si arriverebbe a una accusa diretta ai governanti di aver voluto simulare un processo federativo per scopi diversi da quelli preconizzati, ad esempio, nel Manifesto di Ventotene.
Sta di fatto che, quanto accaduto nel Regno Unito di Gran Bretagna è il manifesto del fallimento dell’Unione Europea. I rischi paventati da J.S.Mill si sono palesati nel tempo, ma sono stati ignorati dalla politica comunitaria, troppo concentrata ad annullare le differenze e le specificità delle popolazioni europee senza preoccuparsi di creare un forte sentimento comune. La politica lontana dai cittadini, volta a imporre regole astratte senza il rispetto delle radici, della storia e delle tradizioni, così variegate come è normale che sia in un continente come quello europeo, è fallita. Ridurre principi come quello di prossimità, ossia di potere decisionale delegato o affidato a organismi pubblici a contatto con i cittadini, a mero ruolo amministrativo o applicativo di regole scritte da lontano e troppo spesso frutto di suggerimenti e, persino, decisioni assunte da figure non delegate dal popolo, ha portato a un malcontento che erroneamente andrebbe racchiuso all’interno dell’acque dell’isola britannica. A livelli diversi, è un malcontento europeo.
Si consideri che in Gran Bretagna, per una decisione così importante, è stato assunto lo strumento democratico per eccellenza: il referendum. E si badi che non si tratta del referendum all’italiana, ossia un contorto e oscuro meccanismo di consultazione popolare, spesso fallito perché volutamente illeggibile. Dalle parti di Londra certe cose vengono fatte bene. Come accadde per l’indipendenza della Scozia, tenutosi il 18 settembre 2014, ogni quesito referendario viene esaminato, in particolare da una Electoral Commission, per valutarne il livello di correttezza, chiarezza, fruibilità e semplicità, anche attraverso lo strumento del sondaggio; perché in un paese autenticamente liberale lo scopo è, tornando alle parole di Mill, garantire ai cittadini la libertà di associarsi come meglio desidera.
Quel che è accaduto il 23 giugno va letto con le connotazioni che merita: l’uscita della Gran Bretagna dalla UE è un evento rivoluzionario. Lo è per l’importanza economica, politica, storica e sociale di questo paese. Lo è perché il sistema UE ha mostrato di non reggere quando gli europei sono chiamati a esprimere nella sostanza il proprio parere sull’operato comunitario. Lo è per la Gran Bretagna stessa, perché non è da escludere un’ulteriore rivoluzione interna, pensando soprattutto alla questione scozzese.
E’ verosimile immaginare, infatti, che il Parlamento scozzese torni alla carica con un nuovo referendum per decidere sulla uscita della terra degli Highlanders dal Regno Unito di Gran Bretagna e per la sua entrata diretta nell’Unione Europea. Staccare Edimburgo da Londra significherebbe un maggior controllo economico del territorio, una gestione diretta e totale del Mare del Nord, il più grande giacimento petrolifero d’Europa, forse anche un pieno recupero del sistema giuridico scozzese che, è opportuno ricordarlo, non è di tipo Common Law, ma è storicamente Civil Law, ossia di diretta matrice latina e, quindi, continentale.
Siamo solo all’inizio di una nuova epoca per l’Europa. E, ancora una volta, come accadde con la Gloriosa Rivoluzione e la Rivoluzione Industriale, è la Gran Bretagna al dare il là a un processo che negli anni contagerà l’intero Continente. A cosa si approderà è difficile dirlo.
Ci fossero meno “simulatori” e più governanti attenti alle reali esigenze dei popoli europei, il 23 giugno dovrebbe essere visto come l’inizio di una rivisitazione completa dell’attuale sistema europeo per arrivare finalmente al progetto federativo senza i difetti evidenziati da Mill e con le qualità impresse nel Manifesto di Ventotene.
Il liberale scozzese vide come modelli da prendere ad esempio la Svizzera e gli Stati Uniti d’America.
Boris Johnson, probabile futuro leader del Conservatives dopo le dimissioni di David Cameron nonché sostenitore dell’uscita della Gran Bretagna dalla UE, ma dichiarato europeista, ha sempre auspicato lo studio politico del sistema di governo dei territori da parte dell’antica Roma per ispirare la nuova Europa.
Gli strumenti per una seria riflessione ci sono, ma serve la buona volontà delle diverse forze politiche nazionali e comunitarie.
C’è ancora tempo per la nascita degli Stati Uniti d’Europa.
Dunque, secondo John Stuart Mill, ipopoli europei per federarsi avrebbero dovuto mettere nero su bianco che le diversità culturali di ogni singola nazione andassero rispettate e valorizzate, e, al tempo stesso, i popoli europei avrebbero dovuto ricercare quello che li unisse, e ciò che costituisce la matrice culturale comune dell’Europa è proprio, e in modo incontestabile, il Cristianesimo. Non si spiega,allora, il tenace rifiuto che il Parlamento di Strasburgo oppose al menzionare,nella Costituzione Europea, qualunque accenno alle “comuni origini cristiane”. Si pensava forse di essere “confessionali” ? Possibile che ignorassero la famosa frase di Benedetto Croce in merito? Quel suo “non possiamo non dirci cristiani” non era necessariamente un’adesione ad un credo religioso; tant’è vero che, per i Cristiani, la “Cristianità” è cosa ben diversa dal “Cristianesimo”, nel senso che non basta agitare una “bandiera” per dirsi seguaci di Gesù Cristo. Il riconoscimento delle “radici cristiane” sarebbe stata il modo migliore perché i cittadini europei si capissero: in tutta Europa sorgono “cattedrali-simbolo”. e la “Via Francigena” oggi viene percorsa non solo dai pellegrini diretti alla Basilica di San Pietro, ma anche, ad esempio, dagli ecologisti, e da coloro che vogliono rendersi conto, passo dopo passo, delle varie vestigia storiche incontrate lungo il percorso.
Se allora il Parlamento Europeo avesse considerato tutto questo, forse ogni cittadino europeo, inglesi compresi, avrebbe trovato un motivo di più per credere nell’Europa.
Infatti, i nostri insensibili politicanti, fortemente influenzati dagli equivoci principi di eguaglianza di conio collettivista, hanno fatto di tutto per imporre parametri identici ai diversi, calpestando inclinazioni, preferenze e tradizioni di culture che certe comunità coltivano da sempre. Se gli individui sono diversi, come pretendere che i Popoli siano tutti uguali? Come pretendere di imporre loro parametri identici?
Nella nostra Unione Burocratica di Bruxelles e Friburgo fra un po’ oltre ad imporre le dimensioni delle fette di salame di loro preferenza, mancava solo di prescrivere addirittura colore, misura, consistenza, composizione, durabilità, resistenza dei preservativi.
Questa gente, pare di non aver altro a cui pensare se non uniformare tutto. Se l’Europa si distingue per il suo patrimonio di diversità, come credere di poter rendere tutto uguale?
Risultato: Hanno stancato una buona parte degli Europei, anche dei più convinti europeisti, fra i quali mi sono sempre identificato e gli Inglesi – loro malgrado – hanno perso la pazienza… o No?