Un Referendum per il destino della Libia

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L’argomento della Libia ha rilevante peso nel discorso pubblico italiano odierno. Impossibile stare dietro alle analisi ed ai commenti: troppo numerosi, ma spesso approfonditi e di buona qualità. Per quanto mi riguarda, ho trovato particolarmente ben scritto l’editoriale di Paolo Mieli “La missione in Libia e i pericoli per l’Italia” (nel Corriere della Sera, del 6 marzo 2016, pp. 1 e 30). Dei tre interrogativi formulati da Mieli, il secondo ed il terzo meritano una riflessione attenta. Soprattutto da parte del Governo e del Parlamento italiani; fermo restando che la prudenza fin qui dimostrata dal Governo italiano è, dal mio punto di vista, opportuna e da apprezzarsi.

La posizione ufficiale dell’Italia è sempre stata quella di difendere l’unità statuale della Libia. Alcuni commentatori si spingono a dire che ciò costituirebbe un preminente interesse nazionale italiano. In una situazione tanto complessa e difficile, tuttavia, non ci possono essere argomenti tabù: siamo davvero sicuri che insistere sulla unità statuale libica sia la via migliore per ottenere la pacificazione e la stabilizzazione di quell’area geografica?
Mieli lo ha scritto con garbo, ma è noto che un grande Stato, insieme arabo e nord-africano, l’Egitto, sta facendo di tutto perché si arrivi ad una spartizione della Libia. L’Egitto preferirebbe si tornasse alle tre province esistenti durante la lunga dominazione ottomana: la Cirenaica, la Tripolitania, il Fezzan. In questo caso, darebbe per scontata l’influenza egiziana sulla confinante Cirenaica. Penso che tali previsioni potrebbero essere anche smentite; perché la Cirenaica dispone di una città importante quale Bengasi e, soprattutto, ha una propria fisionomia culturale ed una propria tradizione storica. Basti ricordare la comunità religiosa islamica della Sanûsiyya. Che non era una comunità di fanatici salafiti, ma una Tarîqa sufi. Come purtroppo molti non sanno, il Sufismo rientra tra le cose migliori che l’Islam abbia espresso dal punto di vista spirituale-religioso; lo dimostra il fatto che gli estremisti religiosi ed i fondamentalisti politico-religiosi lo abbiano sempre combattuto ed abbiano cercato di annientarlo. Furono i prima pacifici Senussi ad animare la resistenza contro l’occupazione coloniale italiana.

Durante il fascismo, gli Italiani fecero cose di cui non c’è certo da andare fieri per piegare la resistenza dei Senussi: inclusi le deportazioni di massa ed i campi di concentramento. Il capo della resistenza, il leader religioso Omar al-Mukhtâr, fu giustiziato dai fascisti italiani nel mese di settembre del 1931; per la cronaca, era un vecchio (aveva compiuto settant’anni, età ragguardevole nelle condizioni di vita del Nord-Africa al tempo).
Mieli non lo ha scritto, ma tutti sanno, ad esempio, che la Francia vorrebbe che l’antica provincia ottomana del Fezzan diventasse un’entità statuale indipendente. Qui siamo in pieno deserto del Sahara e le popolazioni di riferimento sono i Berberi. Il rapporto tra la Francia e l’Africa è sempre stato molto stretto e nel continente africano i Francesi hanno tuttora corposi interessi da difendere.
Per tornare all’Egitto, qui i militanti ed i simpatizzanti di quello che fu il partito dei Fratelli Musulmani sono sottoposti a feroce repressione poliziesca; in relazione alla dolorosa vicenda del nostro connazionale Giulio Regeni, abbiamo appreso che oggi in Egitto c’è un regime dittatoriale che usa metodi non dissimili da quelli delle più feroci dittature fasciste dell’America Latina nello scorso secolo. La resistenza organizzata dei Fratelli Musulmani si è trasferita nella confinante Libia e gode del sostegno della Turchia. Tanto per rendere le cose ancora più complesse. Sono peraltro certo che l’Egitto conoscerà stagioni migliori, proprio perché è un grande Paese; esattamente come Cileni ed Argentini si sono liberati dalla dittatura.
In questo scenario, come si vede, le bande libiche affiliate all’ISIS, cioè al sedicente Stato islamico di Iraq e Siria, sono soltanto un ulteriore fattore di pericolo. Alimentano il caos; ma questo pre-esisteva.
La richiesta che, a quanto si dice, gli Stati Uniti hanno avanzato al nostro Governo di schierare sul terreno nostre truppe, numericamente significative (si è scritto, di almeno 5.000 unità), per finalità di polizia internazionale, nasconde un’insidia fin troppo evidente. Tra le righe, la richiesta si può così interpretare: l’Amministrazione degli Stati Uniti riceve dai suoi attuali alleati forti pressioni perché si arrivi ad una divisione consensuale della Libia. L’Italia è l’unico Paese alleato che insiste, invece, affinché sia mantenuta l’unità statuale libica. A questo punto il Governo italiano dimostri che è capace di garantire con le proprie forze questo obiettivo; si impegni, con i fatti, a domare tutte le componenti armate libiche che si coalizzeranno contro l’invasione straniera. Si misuri con il pericolo di colpi bassi e tradimenti che, inevitabilmente, arriveranno da altri Paesi che, in teoria, sono nostri alleati ed amici. Se l’Italia non ha la forza per questo, smetta di scocciare gli Stati Uniti e la Comunità internazionale e si proceda, finalmente, alla possibile divisione della Libia.
Per uscire da questa trappola, bisognerebbe essere capaci di rilanciare, su un piano affatto diverso. Enrico Mattei trovò spazio per l’attività dell’AGIP in Nord-Africa perché propose ai governanti arabi condizioni economicamente più vantaggiose di quelle fino allora offerte dalle cosiddette “Sette sorelle” che operavano nel settore dell’estrazione petrolifera e del gas. Queste “Sette sorelle” erano tutte società con sede nel mondo occidentale: degli Stati Uniti, del Regno Unito, eccetera. Gli accordi stabili si costruiscono sulla base del consenso reciproco; le condizioni proposte da Mattei giovavano tanto agli Arabi quanto agli Italiani. La posizione su cui attestarsi oggi è quella che una francese, Madame de Staël, seppe esprimere con queste semplici parole: «La soggezione di un popolo a un altro è contro natura» (De l’Allemagne). Gli Arabi del Medio Oriente e del Nord Africa, gli Iraniani, i Turchi, non sono popoli soggetti. Di conseguenza, se si pone in modo serio la questione se la Libia debba essere unita, ovvero se debba essere tripartita, siano gli stessi Libici a deciderlo. Nessuno saprà valutare, meglio di loro, i loro propri interessi.
La Comunità internazionale organizzi un Referendum popolare con un quesito chiaro, il cui significato sia comprensibile da tutti. Truppe dell’ONU garantiscano un cessate il fuoco generalizzato in tutta la Libia per un tempo definito: in modo da consentire un minimo di campagna elettorale ai Libici interessati al Referendum e poi per lo svolgimento della votazione. Lo spoglio sia direttamente effettuato da funzionari incaricati dall’ONU. Tutti gli Stati si impegnino a rispettare il risultato del voto popolare, qualunque esso sia. E’ vero che l’ISIS potrebbe cercare di boicottare l’iniziativa: ma si troverebbe in una situazione politicamente insostenibile. Dovrebbe infatti sostenere, al cospetto del mondo, che si oppone ad una concreta esperienza di autogoverno di una popolazione islamica.
Sia l’Italia a lanciare la proposta del referendum per la Libia nella Comunità internazionale.
Altre vie d’uscita non ce ne sono. Non regge la tesi che basti affidare ai nostri Servizi segreti il compito di promuovere limitati interventi militari di nostre truppe per difendere gli impianti dell’ENI o altri nostri insediamenti in loco, di rilevante interesse economico. L’idea che senza copertura politica e parlamentare, i Servizi possano avere potere decisionale in fatto di vita e di morte, è puro colonialismo, puro fascismo, di ritorno.

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