(www.affaritaliani.it) La crisi allarga in tutto il mondo la forbice tra ricchi e poveri. Anche in Italia, dove l’1% della popolazione detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta, (definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività), praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. A riferirlo è l’Ocse, secondo cui la crisi ha accentuato le differenze, dato che la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata (-4%) per il 10% più povero della popolazione. La ricchezza nazionale netta, dice ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita a in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolar-mente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco detiene il 61,6% della ricchezza e il 20% appena al di sotto il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero. Anche nella fascia più ricca, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il 5% più ricco della popolazione detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta.
A preoccupare l’organizzazione internazionale è il fatto che il tasso di povertà tra le famiglie italiane di lavoratori autonomi, precari, part time, sia al 26,6%, contro il 5,4% per quelle di lavoratori stabili, e il 38,6% per quelle di disoccupati. In particolare, mostrano i dati Ocse, se si fissa a 100 il guadagno medio dei lavoratori con posto fisso, quello degli atipici si ferma a 57, con grosse disparità tra le varie categorie (72 per un lavoratore autonomo, 55 per un lavoratore con contratto a termine full time, 33 per un lavoratore con un contratto a termine part time). A questo si aggiunge la sempre maggiore difficoltà a passare da un’occupazione precaria a una fissa: sempre secondo i dati Ocse, tra le persone che nel 2008 avevano un lavoro a tempo determinato, cinque anni dopo solo il 26% era riuscito ad ottenere un posto a tempo indeterminato. Nonostante le criticità rilevate dall’Ocse, va almeno sottolineato che l’Italia è il Paese dell’area con la minor percentuale di famiglie indebitate, il 25,2%, davanti a Slovacchia (26,8%), Austria (35,6%) e Grecia (36,6%), e ben lontana dai livelli delle altre due grandi economie dell’eurozona, Francia (46,8%) e Germania (47,4%), della Gran Bretagna (50,3%) e degli Usa (75,2%). Nel nostro Paese è inoltre molto limitata l’incidenza del sovra-indebitamento: solo il 2,3% delle famiglie ha un rapporto debito-asset superiore al 75%, e solo il 2,8% ha un rapporto debito-reddito superiore a tre volte.
La lista della spesa
(Sergio Rizzo, Corriere) <Ma se io avessi previsto tutto questo… forse farei lo stesso>. La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Carlo Cottarelli La lista della spesa: la verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Un viaggio nel ventre della Bestia che succhia le nostre risorse. La Bestia, è il messaggio di Cottarelli (ricordiamo che fu chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta a ricoprire il posto di commissario alla spending review) non è invincibile. Certo, nemmeno per lui deve essere stato facile affrontarla. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, è un eufemismo. Basti che dei 17 gruppi di lavoro istituiti in 13 ministeri, ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai concluso il lavoro. C’entra forse la caduta del governo Letta, che probabilmente ha segnato anche il destino di Cottarelli. Ma di sicuro c’entra la reazione della pubblica amministrazione. E di quello che l’ex commissario chiama benevolmente <il suo complicato mosaico>. Cottarelli racconta di averne scoperto le dimensioni grazie a una stima della Funzione pubblica. Da brivido. Sapete quante erano alla fine del 2012 le sole sedi territoriali dei ministeri? Circa 5.700. Numero al quale si devono però aggiungere 3.900 uffici di enti vigilati dai ministeri. Per un totale di 9.600. Senza però che in quelle quasi 10 mila sedi del solo Stato centrale (una ogni 6.250 italiani) siano comprese le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri.
Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle Province, con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione… Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Croazia, Serbia, Macedonia Grecia e Cipro. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni…
Per non dire delle diseconomie che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. E poi gli enti pubblici. La “miglior ricognizione” che Cottarelli dice di aver trovato, è un documento della Camera che ne elenca 198, ma solo quelli nazionali. Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un “sottoinsieme” delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico.
Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi. Noi, per niente. Gli edifici sono vecchi, gli spazi si sprecano. Eppure i costi <potrebbero essere grandemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno…>. <Vero è, insiste l’ex commissario, che anche senza ristrutturazione, qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con una maggiore attenzione alle risorse pubbliche>. Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato <che erano gli ultimi giorni di accensione…>. E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, <il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno>. Per la cronaca, i diritti del libro di Cottarelli saranno devoluti all’Unicef.
Un grande guazzabuglio
(Sergio Rizzo, Corriere) Dice l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli che l’Italia spende per la previdenza il 16,5 per cento del Prodotto interno lordo, record continentale assoluto. L’Ocse calcola invece che sia pari al 14 per cento, ma contro una media dei Paesi industrializzati del 7,2. Fra il 2001 e il 2011, prima del blocco degli adeguamenti all’inflazione decretato da Monti (e bocciato dalla Corte costituzionale), la spesa pubblica al netto degli interessi è salita in termini reali di circa 62 miliardi di euro: di questi, ben 57 miliardi per il solo capitolo “Protezione sociale”, rappresentato per la stragrande maggioranza proprio dalle pensioni. Sono dati della Ragioneria dai quali si desume che quel capitolo rappresentava, nel 2011, oltre il 40 per cento della spesa pubblica complessiva.
Che si spenda tanto e sempre di più, dunque, è accertato. Peggio ancora, però, si spende male. Anzi, malissimo. Per questo, la cosa peggiore che la classe politica potrebbe fare oggi, sarebbe quella di limitarsi a tappare i buchi aperti nel bilancio pubblico dalla sentenza della Consulta, senza coglierne il messaggio profondo. Cioè che un sistema così pieno di assurde disparità e folli contraddizioni alla lunga non potrà reggere. Lo sosteneva già nel 1997 un ben più giovane Stefano Fassina allora impegnato nella battaglia <meno ai padri, più ai figli> di blairiana (e anche dalemiana) memoria: <Il problema principale è smantellare un sistema previdenziale corporativo e iniquo. In Italia ci sono cinquantadue regimi pensionistici diversi, e ciò è dovuto al fatto che le categorie più forti si sono fatte regole migliori rispetto a quelle più deboli>.
L’elenco di quelle regole, molte abolite dalle varie riforme, ma che ancora dispieghe-ranno i propri effetti per decenni, è sterminato. Ci sono le leggi che hanno garantito le baby pensioni, i trattamenti privilegiati dei militari e l’assegno sociale da subito ai dipendenti pubblici che non avevano accumulato un minimo di contributi. C’è la legge Mosca che ha regalato migliaia di trattamenti previdenziali a politici e sindacalisti sulla base di semplici dichiarazioni avallate dal partito o dal sindacato. Ecco quindi le regolette che hanno spalancato la strada alle pensioni d’oro dei telefonici, i pareri del consiglio di Stato che l’hanno concessa ai commissari delle authority (alcuni sono consiglieri di Stato), i codicilli che consentono ai dipendenti di Camera e Senato di andare ancora in pensione a 53 anni con assegni superiori allo stipendio, o che hanno rinviato di otto anni l’applicazione della riforma contributiva Dini per i dipendenti della Regione Sicilia… Oppure i prepensionamenti senza soluzione di continuità, grazie a cui abbiamo poligrafici pensionati dall’età di 52 anni mentre i manovali sono costretti a volteggiare sui ponteggi fino a 67.
E poi le furbizie piccole e grandi occultate nelle pieghe delle normative, grazie a cui un avvocato comunale ha potuto riscuotere una pensione tripla rispetto allo stipendio. O i meccanismi curiosi delle casse autonome, ognuna delle quali segue proprie regole, come quella dei giornalisti. Per non parlare della miriade di pensioni bassissime distribuite a pioggia senza un solo contributo versato, come pure degli assegni di invalidità, cresciuti del 52% in dieci anni. Con il risultato che oggi in Italia c’è una pensione di invalidità ogni 21 abitanti. Su tutto, la politica: vitalizi parlamentari che si possono liberamente cumulare a vitalizi regionali, a vitalizi europei e a pensioni regalate a lor signori dai contribuenti con il meccanismo odioso dei contributi figurativi. Ma guai a toccarli. Subito i beneficiari insorgono a difesa dei presunti diritti acquisiti e dell’autodichia: principio in base al quale la politica decide per sé in totale autonomia e le sue decisioni non sono sindacabili.
Un enorme guazzabuglio nel quale privilegi, clientele e assistenzialismi si mischiano a orribili ingiustizie che riguardano soprattutto i giovani e i precari. Il tutto basato su un principio di fondo: l’assenza per la maggior parte delle pensioni pagate oggi e ancora a lungo nel futuro di qualunque rapporto con i contributi versati. Dice tutto il rapporto presentato da Antonietta Mundo al congresso nazionale degli attuari di due anni fa. Nel 2015 le pensioni contributive sono appena l’1,1% del totale, contro l’86,9% di quelle retributive pure. Ma ancora nel 2050 non raggiungeranno che il 40,4%. Con la popolazione sempre più anziana, il lavoro sempre più intermittente, e i versamenti contributivi sempre meno ricchi. Renzi ora promette flessibilità. Benissimo. Ma certo non basta. Per quanto possiamo ancora permetterci un sistema simile? Non sarà il caso di studiare, e in fretta, i correttivi necessari? Forse non lo dobbiamo ai nostri figli?
Inflazione di diritti
(Michele Ainis, Corriere) La rissa fra politica e giustizia costituisce il marchio indelebile della Seconda Repubblica. Da un lato Berlusconi, con i suoi conflitti d’interesse e con le sue sfuriate quotidiane contro i giudici. Dall’altro lato, la fragilità della politica. E’ la legge fisica dell’horror vacui, che vale altresì nella fisica delle istituzioni: se un potere lascia libero il proprio spazio vitale, un altro potere finirà per occuparlo. Da qui la funzione di supplenza della magistratura, da qui il suo ruolo politico. Ma sta di fatto che adesso Berlusconi è ridotto all’impotenza, che il governo esprime viceversa una leadership potente, e tuttavia fra politica e giustizia continuano a volare ceffoni. Come prima, più di prima. Dev’esserci perciò un’altra spiegazione, un’altra causa di questa malattia degenerativa. Non è troppo difficile scoprirla: basta fissare gli occhi su ciò che rimane immobile nel nostro calendario, sugli elementi del passato che si riflettono nel presente. Quali? La crisi economica, la diseguaglianza che morde al collo le categorie più deboli, il deficit di Stato. Sta tutta qui la radice dello scontro. Perché i giudici sono sentinelle dei diritti, e solo questa dovrebbe essere la loro specifica missione. Ma i diritti costano. Non soltanto i diritti sociali: sanità, istruzione, previdenza. Anche le libertà tradizionali espongono un cartellino con il prezzo, anche la sicurezza, dato che per garantirla bisogna garantire lo stipendio dei poliziotti o dei pompieri. Decidendo sulla tutela dei diritti, il potere giudiziario finisce quindi per decidere sulla distribuzione delle risorse pubbliche, che spetterebbe viceversa alla politica. Poco male, quando le vacche sono grasse. Molto male, se ne restano carcasse ossute, pelle senza polpa. Democrazia e crisi economica: ecco la questione. Quanti diritti possiamo ancora permetterci? E chi stabilisce la loro gerarchia? Infatti i diritti sono sempre in competizione fra di loro: se proteggo la libertà d’informazione, sacrifico la privacy; se difendo le cavie animali, disarmo la ricerca medica. Ma la nostra società degli egoismi ha generato un’inflazione di diritti: dell’automobilista, del militare, dello spettatore, del turista. E ogni volta politica e giustizia bisticciano su chi ne sia il tutore. Per uscirne fuori, ciascuno dovrebbe calarsi un po’ nei panni altrui. Serve maggiore sensibilità politica nel potere giudiziario, serve maggiore sensibilità giuridica nel potere politico. E servono canali di comunicazione, strutture di collegamento. In questo tempo di crisi, anche la vecchia separazione dei poteri è diventata un lusso.
Troppe tutele?
(Fabrizio Forquet, Il Sole 24 Ore) E’ difficile non condividere le perplessità arrivate da più parti sulla sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni. Se in quell’occasione gli stessi giudici si sono divisi sei a sei sulla decisione, evidentemente non c’era un diritto così assoluto da tutelare. E le ragioni che imponevano alla Corte la bocciatura di una norma che potrebbe scaricare in teoria sulle finanze pubbliche tra i 4 e i 20 miliardi, non dovevano essere così inderogabili da mettere a rischio la tenuta del bilancio, come hanno osservato gli analisti di Standard & Poor’s. Sembra quasi che una parte dei giudici costituzionali viva in mondo tutto suo, a prescindere dalla realtà, dai vincoli europei in cui è inserita l’Italia, dai cambiamenti strutturali che nell’ultimo decennio sta affrontando il Paese.
In Italia troppe tutele vengono equiparate a diritti assoluti, troppe garanzie sono difese come diritti intangibili. Andrebbero invece trattate semplicemente per quello che sono: tutele e garanzie che sono utili, vanno benissimo, ma solo fino a quando c’è una compatibilità economica che le renda possibili. Quello delle pensioni è il caso più eclatante. Diritti “acquisiti” si dice. Ma in che epoca? Quando con il babyboom la popolazione passava dai 45 milioni del dopoguerra ai 57 milioni del 2000? Quando gli occupati a tempo indeterminato crescevano, e con loro aumentava progressivamente il monte contributivo? Quando la speranza di vita si fermava a 69 anni (nel ’71) e non a 82 come oggi? Quelle cifre rendevano “sostenibile” un sistema pensionistico che oggi non è più sostenibile e rendevano sostenibili trattamenti che oggi non sono più sostenibili. Trattamenti, tutele, appunto, non diritti. Trattamenti da rivedere e aggiornare continuamente al cambio del contesto economico. Altrimenti i diritti presunti di alcuni diventano la disperazione di altri, condannati a non trovare lavoro e a non avere alcuna pensione.
Ma non è certo solo un problema di pensioni. Dopo anni di Pil in continua ascesa, l’Italia negli anni 70 si è potuta dare il servizio sanitario pubblico più universale dell’Occidente. Un fiore all’occhiello del nostro Stato sociale. Ma non più sostenibile nella sua universalità con il saldo di entrate e uscite che il settore pubblico oggi si ritrova. A meno di non affossare definitivamente il sistema produttivo con un livello di tassazione inaccettabile. Il nuovo contesto economico, evidentemente, impone anche qui di superare la teoria dei diritti intoccabili e di avviare una serena discussione sulla riduzione del perimetro dello Stato, aprendo a forme di copertura assicurativa per le fasce di reddito più elevate. Anche il dibattito sulla scuola, a ben vedere, ha a che fare con tutto questo. Perché davanti alle nuove domande cui dovrebbe rispondere il mondo dell’istruzione, si pretende di difendere un vecchio modo di lavorare, senza valutazione e riconoscimento del merito, facendosi scudo di presunti diritti (diritti della -parte più sindacalizzata degli insegnanti) a discapito di altri (gli studenti). Dimenticando peraltro i doveri, come quello di non fissare uno sciopero nel giorno dei test di valutazione Invalsi o di non bloccare gli scrutini.
È un problema culturale che va ben oltre una sentenza, sbagliata, della Corte costituzionale. Ha a che fare con l’illusione italiana delle aspettative crescenti, con l’equivoco dell’espansione continua e illimitata di quelle tutele che erroneamente chiamiamo diritti o, peggio, diritti acquisiti. Una vera e propria ideologia cresciuta quando l’Italia, Paese nato povero, si è progressivamente arricchita negli anni del dopoguerra. Sembrava un’espansione senza fine, alla quale era giusto associare un’espansione senza limiti delle tutele e dei trattamenti economici. Poi quella crescita si è bloccata. Ma una parte importante delle élite politiche, sindacali, culturali, ma anche della sua popolazione, ha preferito non vedere e vivere nell’illusione dell’espansione sempre e comunque. Si sono così respinte le riforme e, con esse, ci si è rifiutati di fare i conti con la realtà. La sentenza della Corte costituzionale sull’indicizzazione delle pensioni è anche questo.
L’invettiva
(Elirs Roel, Circolo Rosselli) Per anni e anni ci siamo illusi che la sinistra avrebbe realizzato un modello di società più equo e più giusto. Alla fine ci siamo ritrovati con privilegi smodati, con pensionati d’oro, con liquidazioni milionarie, con politici e politicanti corrotti, con partiti e gruppi che hanno fatto man bassa del denaro pubblico, con familismo e clientelismo, con giovani “senza padrini” scaricati sulle spalle dei genitori pensionati, con vitalizi moltiplicati a mille (da quando poi si sono aggiunti i Consigli regionali) con corruzione generale mostruosa e sistemica (60 miliardi, secondo la vulgata), con evasione stellare (120 miliardi, secondo la vulgata), con cooperative che lucrano anche sulle disgrazie della povera gente, con la distribuzione della ricchezza ripartita per quasi la metà nelle mani dei più ricchi, con la classe media impoverita, con la classe povera ormai alla fame. Quale partito, specie della sinistra, ha mai proposto un’indagine sugli arricchimenti di regime specie attraverso incarichi o mandati pubblici? Chi si è mai preoccupato di verificare attraverso quali canali continuano ad essere “sistemate” decine di migliaia di persone nelle pubbliche amministrazioni? Ma quando si parla di nuovi posti di lavoro, bisogna tener presente che, specie nel Sud, ormai “sistemati” padri e figli, sono in attesa impaziente i nipoti! Credo che coloro i quali si erano illusi che i nodi non venissero al pettine, farebbero meglio, anche per ragioni di decenza, a tacere e godersi in silenzio, con familiari, parenti e sodali, i benefici immeritati di regime.
Inefficienza
(Alessandro De Nicola, Repubblica) Mai come in questo momento si ha l’impressione che l’apparato statale sia prigioniero della propria inefficienza. Molti lettori si ricorderanno la sentenza della Corte Costituzionale di febbraio 2015 che ha dichiarato illegittima la nomina di 767 dirigenti dell’Agenzia delle entrate, in quanto effettuata senza rispettare i principi normativi che regolano l’iter di carriera e prevedono concorsi pubblici. Oltre al fatto di constatare che i controllori della probità fiscale degli italiani a casa propria distribuivano prebende all’italiana, subito si pose il problema se gli atti firmati dai dirigenti illegittimamente nominati avrebbero potuto essere dichiarati nulli. Si rischiano difatti migliaia di accertamenti vaporizzati dalla mancanza di poteri di chi li aveva disposti. Quando mai! La direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlandi e, con minore veemenza, il ministro Padoan subito avvertirono i contribuenti di non sprecare i propri soldi iniziando ricorsi inutili perché gli atti erano validi, anzi validissimi.
Malauguratamente per il Governo, in Italia tuttora esistono persone disposte ad investire il proprio denaro per far valere i propri diritti, e così un contribuente monzese ha ottenuto una sentenza dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che sembra smentire le granitiche certezze del governo e dei suoi burocrati. I giudici ambrosiani, infatti, hanno ritenuto che un avviso di accertamento firmato da un presunto dirigente dell’Agenzia, il cui nome risultava nell’elenco di quelli individuati dal Consiglio di Stato tra i promossi irregolarmente, sia invalido. Tali atti devono essere firmati da personale di “carriera direttiva” e tale non era il funzionario nel caso di specie. Orbene, una sentenza da sola non costituisce un precedente inespugnabile ed è possibile che altri magistrati esprimano pareri diversi. I responsabili politici e dell’amministrazione, però, è bene che d’ora in poi si limitino a profondersi in sentite scuse per il malfunzionamento della Pubblica amministrazione e non si ergano da imputati a giudici.
Decapitazioni
(Gianluca Nicoletti, La Stampa) Per qualcuno dei nostri nonni non è stato considerato riprovevole tagliare la testa a un nemico. E’ avvenuto che soldati italiani si producessero nello stesso macabro rituale della decapitazione a scopo propagandistico che oggi ci viene proposta via internet dai boia dell’Isis. E’ la testimonianza orrenda di un evento storico che ci riguarda che certamente non vuole rappresentare nessuna giustificazione per la barbarie delle decapitazioni trasformate in spot pubblicitari dagli uomini del Califfato e che oggi pullulano nei social media. E’ chiaro a tutti noi che siano la prova di una crudeltà arcaica e detestabile che non deve convivere con la civiltà che ci siamo faticosamente conquistati. E’ però giusto riflettere quanto nessuno di noi, e in nessun territorio, si debba sentire protetto da improvvisi ritorni alla ferocia. E’ bene ricordare che nel nostro patrimonio genetico umano sia latente ogni possibile efferatezza, questo serve sicuramente ad affermare con ancora più forza la nostra consapevolezza di essere umani civilizzati.
Le immagini di decapitazioni sono state pubblicate di recente, nel 1996 nel libro di Angelo Del Boca I gas di Mussolini e sono del fotografo professionista che operava in Africa orientale Angelo Dolfo. La sequenza è del settembre 1937 e mostra tre fasi della decapitazione, e successiva esposizione, della testa mozzata del Degiac (comandante) Hailù Chebbedè capo di una ribellione debellata da soldati italiani, impegnati in Etiopia nella costruzione dell’Impero, dopo un sanguinoso combattimento in cui era stata impiegato il gas velenoso iprite per snidare i partigiani che si erano nascosti nei boschi. Dopo che Hailù fu passato per le armi si decise che la sua testa sarebbe dovuta essere esposta nella piazza del mercato di Quoram, come monito ai ribelli. Del Boca nel suo libro riporta la testimonianza diretta del chirurgo militare Giuseppe Rotolo, a cui fu chiesto di staccare la testa del ribelle. Il medico si rifiutò, ma “l’operazione” fu comunque eseguita. La testa venne riposta in una scatola vuota di biscotti (conteneva le “Marie” della Lazzaroni).
Del Boca specifica che questo non fu un episodio isolato, ma di immagini simili se ne trovano a migliaia nella fototeca dell’Institute of Ethiopian Studies di Addis Abeba, come in archivi privati. Un testimone racconta: <Spesso i carnefici italiani si fanno fotografare in posa davanti alle forche o reggendo per i capelli le teste mozzate dei patrioti etiopici. In alcune foto gli aguzzini innalzano le teste recise su picche. In altre le fanno rotolare fuori da un cesto. In altre, ancora, le espongono in mostra su un telone, quasi fossero oggetto di baratto>. Questo chiaramente non fa di noi un popolo di tagliatori di teste, ma non possiamo non tenere conto che in molte delle nostre famiglie in qualche cassetto ci sono foto del genere. Le portavano a casa i reduci delle guerre d’Africa e sono restate per decenni a sonnecchiare assieme a quelle di generazioni di nipotini in fasce, di sposalizi, di coniugi in posa. Io stesso ricordo di averne viste tra i cimeli di famiglia. Erano per noi bambini, solo dei nemici africani, che erano stati impiccati dai nostri soldati, di cui forse aveva fatto parte anche un parente combattente. E’ duro e spietato ricordarlo, ma se vogliamo segnare la differenza tra noi e i nuovi barbari dobbiamo innanzitutto avere il coraggio di saper elaborare il nostro passato.
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Norfolk Island
(Vittorio Sabadin, la Stampa) Il primo europeo che scoprì l’isola di Norfolk (e così la chiamò in onore della moglie del duca di Norfolk scomparsa da poco) fu il capitano inglese James Cook, l’8 ottobre del 1774. Nell’anno 1788, per colonizzare l’isola le autorità britanniche decisero di instaurarvi una colonia penale, la quale tuttavia fu abbandonata nell’anno 1814. Ma l’8 giugno del 1856 l’isola fu colonizzata dai 194 abitanti dell’isola di Pitcairn, discendenti degli ammutinati del Bounty, che furono costretti a trasferirsi a causa della scarsezza delle risorse della piccola isola in cui erano sbarcati. Tuttora a Norfolk è molto sentito il legame culturale con la prima comunità stanziatasi nell’isola Pitcairn sotto la guida di John Adams, capo degli gli ammutinati. Nel 1901 con la nascita del Commonwealth australiano, l’isola di Norfolk cadde nell’area di influenza di quest’ultima. L’isola infatti si trova a 1400 chilometri da Sydney, fra la Nuova Zelanda e la Nuova Caledonia.
Di recente il parlamento di Camberra ha deciso di dare agli abitanti dell’Isola la stessa assistenza medica e sociale, le stesse pensioni e lo stesso livello di educazione dei cittadini australiani. Ma i 1800 residenti della minuscola isola non li vogliono: vivono felici con le antiquate leggi che si sono dati, in una comunità solidale e amorevole, che assiste le persone anziane non più in grado di lavorare, fornisce ai bambini la preparazione scolastica che serve e presta le cure mediche possibili in un luogo così distante da qualsiasi città. Il confronto è in corso, ma gli isolani dovranno adattarsi. A fine giugno entreranno in vigore le leggi del Nuovo Galles del Sud e per Norfolk Island sono in arrivo un modo di vivere più complicato, tasse che prima non c’erano e un sistema di welfare di cui nessuno sentiva veramente il bisogno. Ancora oggi, nessuno chiude a chiave la porta dell’abitazione o quella dell’automobile. Non esistono tasse sul reddito. I ragazzi prendono la patente a 15 anni, e sono liberi di andare a pescare quando ne hanno voglia, senza licenza. I bambini vanno a scuola fino a 12 anni. All’ospedale si praticano solo interventi chirurgici semplici, come appendicectomie o cesarei. Non è molto, ma tutti temono che, con la scusa di doverle migliorare, le cose invece peggioreranno.
Melissa Davey è una giornalista britannica che ha scritto un reportage dall’isola per il quotidiano The Guardian di Londra. <Quando si vive di sussidi – le ha detto Hadyn Evans, un agricoltore – la gente perde umanità e amore reciproco>. Matt Biggs, che coltiva frutta e verdura, teme che si dovrà rinunciare a un po’ di libertà: <Ci imporranno un sacco di cose, mentre noi abbiamo una vita semplice, non ci soddisfa pienamente>. Gli abitanti parlano un loro dialetto, un misto dell’inglese del ‘700 e della parlata di Tahiti, per via di un certo numero di immigrati dalla Polinesia francese. Ogni persona nell’isola ha due o tre occupazioni, e l’idea che qualcuno possa prendere un sussidio per non fare niente è inconcepibile. II timore è che l’Australia, più che al loro benessere, sia interessata a incrementare i diritti di pesca (che peraltro non ha mai concesso pienamente agli isolani), a imporre tasse sulla terra e sul reddito, e magari a convincere gli indigeni a trasferirsi sul continente per fare dell’isola un paradiso turistico.
Citazione
Il pianeta Marte è rossastro, nel suo sottosuolo scorre l’acqua, potrebbe addirittura esserci un po’ di vita. Somiglia alle minoranze del Pd (Jena).
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