(Corriere della Sera) La “Coalizione sociale” nasce in questi giorni, nella sede nazionale della Fiom a Roma. <Dovremmo riuscire a dare forma ad un progetto innovativo, individuando punti di programma condivisi. Vi scrivo per invitarvi ad un incontro>. Sindacalisti, associazioni, reti, movimenti, personalità. L’ora della fondazione è arrivata. La firma è di Maurizio Landini. Eccolo al dunque, il segretario dei metalmeccanici. <Nelle scorse settimane abbiamo ragionato sulla necessità di un momento assembleare per dibattere in modo libero e aperto l’ipotesi di costruire una coalizione sociale>. Se ne parla da tempo. L’idea è quella di una associazione di associazioni, un rassemblement alla sinistra del Partito democratico, ampiamente plurale e in grado di raccogliere il dissenso anti Renzi, fuori e dentro il Pd. Dunque, ancor prima della manifestazione del 28 marzo a Roma la cosa landiniana avrà una forma. <Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con molti – scrive il segretario – e di condividere sin da subito l’idea che il tentativo di costruire una coalizione sociale muove da una certezza: la politica non è proprietà privata>. Quindi, sottolinea il leader, è la stessa Costituzione a promuovere <la partecipazione alla vita pubblica>. Dal lavoro alla politica attiva, saltando le intermediazioni.
Perché questo passaggio è necessario? Si parte <da due assunti che si stanno affermando, due idee nefaste alimentate dalla crisi economica e sociale e dalle politiche di austerità europee: la “fine del lavoro” e “la società non esiste”, esistono solo gli individui e il potere che li governa. Sono lo spettro di un futuro già presente con cui siamo chiamati a fare i conti in tutta Europa>. Riferimento importante, quello alla Ue, che serve ad agganciarsi alle due coalizioni sociali già esistenti: Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. <La politiche della Commissione e della troika – continua Landini – anche in Italia stanno mettendo in discussione la democrazia, il lavoro e i suoi diritti, l’istruzione e la formazione, la salute, i beni comuni, la cultura, la giustizia>. Ecco allora che bisogna superare il frazionamento e coalizzarsi per una domanda di giustizia sociale sempre più inascoltata, e – cosa importante – senza rappresentanza. Nasce così qualcosa di nuovo e di diverso dai partiti conosciuti: <La coalizione sociale dovrà essere indipendente e autonoma: significa che per camminare dovrà potersi reggere sulle proprie gambe e pensare collettivamente con la propria testa>.
Jobs act
(Claudio Bellavita, Circolo Rosselli) La sinistra alternativa e il sindacato fanno politica in nome dei massimi principi, ma non fanno la verifica dei numeri. Ha cominciato la grande Fiom di Torino nel 1980 a non avvertire che si preparava la marcia dei 40.000; e poi ha proseguito non ponendosi il problema di come funzionavano i suoi terminali nella grande fabbrica. Ragione per cui ha perso molti dei suoi quadri migliori, che han cambiato mestiere piuttosto che seguire le follie di Bertinotti. Hanno proseguito il Pci e la Cgil comunista nel 1985 perdendo il referendum sulla scala mobile, che pure toccava interessi vitali dei lavoratori e dei pensionati, anche stavolta senza fare l’autocritica sulla perdita di credibilità. Adesso, sul Jobs act si fanno battaglie sui “principi non rinunciabili” senza ragionare sui numeri dei lavoratori del settore privato che sono 12 milioni. Di cui quella legge migliora la posizione per 9 milioni, e la peggiora per 3. Insomma sembra che continui la difesa dei privilegi dei pochi contro le aspirazioni di tanti. Come quando la Cgil mandò a monte l’accordo di Alitalia con Air France perchè i piloti italiani, nessuno dei quali iscritto alla Cgil, guadagnavano di più di quelli francesi. D’altra parte il nume tutelare di questa sinistra è Stefano Rodotà, che con la sua versione della “Privacy” ha fatto un enorme regalo alla burocrazia. E adesso sarà la “Privacy” che impedirà agli italiani di ricevere a casa il 730 precompilato, faccenda che danneggerebbe molto i patronati del sindacato; i quali, per compilare le dichiarazioni prendono soldi dallo Stato e anche dal suddito che chiede aiuto
Overdose Salvini
(Michele Brambilla, La Stampa) Ti addormenti la sera che c’è Salvini che parla a Porta a porta e ti svegli la mattina che c’è Salvini che parla a Omnibus. Poi vedi il telegiornale e c’è Salvini, la rassegna stampa e c’è Salvini, la Vita in diretta e c’è Salvini, Pomeriggio 5 e c’è sempre lui, Salvini, onnipresente come padre Pio di cui si diceva potesse essere in più luoghi contemporaneamente, solo che il santo del Gargano appariva sempre con lo stesso saio mentre Salvini ha una felpa per ogni collegamento, Lumbardia e Sicilia, pro Roma e contro Roma. Nessuno occupa il video più di Salvini, e verrebbe da chiedersi come mai l’altro Matteo glielo permetta. Ma forse in realtà non solo glielo permette, ma anzi, l’incoraggia: nessuno più di Renzi è felice dell’overdose tv di Salvini. Il quale è bravissimo a parlare alla pancia della destra, ma molto meno alla testa: chiedete a molti imprenditori che votavano Berlusconi se oggi hanno più paura di Renzi o di Salvini. Ecco perché l’immagine di un centrodestra incarnato da Salvini è la migliore assicurazione sulla vita per Renzi. L’uomo in felpa arriverà anche al venti per cento, ma che possa vincere le elezioni, forse non lo crede neanche lui.
Massimo Gramellini
(La Stampa) L’uomo è salvo, ma il mito è perduto. Tra un’assoluzione e un’acquisizione, continua il declino al rallentatore di colui che fu Berlusconi. Come se Napoleone, anziché a Sant’Elena, avesse trascorso l’ultima parte della sua vita in due camere e cucina a Montmartre, litigando di continuo con la servitù e affacciandosi ogni tanto alla finestra per rispondere al saluto revanscista di qualche nostalgico. Trattandosi di un individuo dalle sette vite e dalle sette ville, il due camere e cucina è metaforico. Ma la sopravvivenza giudiziaria rimane una mancia ben magra per chi credeva di essere Napoleone e aveva convinto della cosa milioni di italiani. Un mito si riconosce dall’uscita di scena, mentre non c’è grandezza alcuna nella sua parabola discendente, solo un accomodamento al ribasso, dalla Champions a Inzaghi, dal G8 a Brunetta. Profetizzando scenari shakespeariani, come nell’ultima scena del Caimano, i suoi nemici gli hanno attribuito una dimensione epica che alla prova dei fatti si è rivelata inesistente. Non si sta congedando dalla Storia col cipiglio di un gigante spodestato, di un De Gaulle, di un Nixon o almeno di un Craxi. L’ossessione per la roba, che in lui prevale su qualunque motivazione ideale, lo ha indotto a scavarsi una nicchia di sopravvivenza e a festeggiare come un trionfo persino una pausa momentanea nel furibondo corpo a corpo con la giustizia che ha innescato fin dalla gioventù. Adesso fonderà Forza Silvio, la ridotta della Valtellina per trattare con l’erede toscano che maneggia la politica con più perizia e risolutezza di lui. Invece che alla Storia, passerà alla cassa.
(Gramellini2, La Stampa) La cascina Raticosa è un rifugio sui monti sopra Foligno che durante la Resistenza ospitò il comando della quinta brigata Garibaldi. Nei giorni scorsi qualche nostalgico dello sbattimento di tacchi ha rubato la targa commemorativa e disegnato una svastica enorme sul muro. Forse non sapeva che nei pressi della cascina, in una notte di febbraio del 1944, ventiquattro partigiani appena usciti dall’adolescenza erano stati catturati dai nazisti, caricati su vagoni piombati e mandati a morire nei campi di concentramento del Centro Europa. O forse lo sapeva benissimo e la cosa gli avrà procurato ancora più gusto. Però non poteva immaginare che tra quegli adolescenti ce ne fosse uno scampato alla retata. Sopravvissuto fino a oggi per leggere sulle cronache locali il racconto dell’oltraggio. Mentre tutto intorno le Autorità deprecavano e si indignavano a mani conserte, il signor Enrico Angelini non ha pronunciato una parola. Ha preso lo sverniciatore, il raschietto, le sue ossa acciaccate di novantenne ed è tornato al rifugio della giovinezza per rimettere le cose a posto. Con lo sverniciatore e il raschietto ha cancellato il simbolo nazista. E dove prima c’era la targa ha appoggiato una rosa.
Il potere senza contrappesi
(Michele Ainis, Corriere) Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma costituzionale rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali.
Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo, che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 – che regola la funzione legislativa – s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione. Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.
In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio. Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’iter legis. E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché – di fatto – il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura.
Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.
Quelli che ci credono
(Ferruccio Sansa, Il Fatto) <Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono>. Ha ragione, l’alto dirigente democratico che ti agita davanti, in segno di dissenso, una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. La colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata sulla base dell’ossequio più che dei meriti. La deriva del maggiore partito italiano è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso e che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D’Alema & C., che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene, che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche manifestazioni di dissenso. Come quel pezzo grosso del partito che, paonazzo di sdegno, si scaglia – ma solo in privato – contro Davide Serra e il clan di finanzieri che lo seguono nel cercare affari in Italia. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme – quelle vere – della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi. E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Deborah Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana che in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell’assessore Anna Marson. Perché fanno così? Certo, c’è chi tiene famiglia e se perdesse la poltrona finirebbe a spasso, dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C’è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C’è chi è sinceramente convinto che l’unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso?
Quantitave easing
(Moyra Longo, Il Sole 24 Ore) <Mi sembra di essere come un bambino a dieta in un negozio di dolci>. A parlare è il direttore finanziario di una delle maggiori aziende italiane che, nell’era del quantitative easing della Bce, ha un problema che in fondo vorremmo avere tutti: dispone di troppa liquidità. Troppi soldi bussano alla sua porta, ma lui non ne ha più bisogno. Per cui deve dire di no. E di bambini nel negozio di dolci, in Europa, ce ne sono tanti: molte grandi aziende, che hanno un’elevata affidabilità creditizia, oggi possono ottenere fondi sul mercato obbligazionario (o anche in banca) praticamente illimitati pagando interessi intorno allo zero. 0 addirittura sotto. È il caso di gruppi come Ferrero, Nestlé, Shell o Bmw, che nelle scorse settimane hanno visto i rendimenti di alcuni loro bond scendere sul mercato a livelli negativi. In Italia nessuna azienda arriva a tanto, ma un gruppo come Tema ieri aveva sul mercato un bond triennale con un tasso dello 0,48%. Il problema è che questo “privilegio” è per ora riservato a pochi big: in Europa il mercato obbligazionario è infatti un canale di finanziamento marginale per le imprese. In Italia solo 80 aziende (tutte grandi) hanno bond sul mercato internazionale, per un valore di 174 miliardi: poco, se si considera che il totale credito bancario al settore privato ammonta a 1.556 miliardi.
Il fenomeno dei tassi a zero è figlio del “bazooka” di Draghi. La Bce infatti ha avviato il quantitative easing: ha iniziato cioè a stampare moneta e, con i soldi “nuovi”, comprerà sul mercato titoli di Stato (non solo) per un ammontare mensile di 60 miliardi. Questa campagna acquisti creerà un effetto scarsità senza precedenti: gli Stati nel 2015 emetteranno infatti meno titoli, al netto dei rimborsi, rispetto agli importi che saranno comprati dalla sola Bce. Gli investitori lo sanno, e dunque da mesi acquistano a piene mani per anticipare l’Eurotower: così i prezzi dei Btp di tutta Europa continuano a salire e i rendimenti a scendere. Tanto che ormai il 35% dei titoli di Stato in Europa ha tassi d’interesse negativi. Ovvio che per spuntare rendimenti più appetibili, da tempo i famelici investitori comprano anche corporate bond. Cioè obbligazioni emesse da aziende. Così anche i loro rendimenti si sono ridotti a livelli senza precedenti. Soprattutto quelli con rating elevati: ieri un bond di Bayer poco sotto i 4 anni quotava sul mercato al tasso dello 0,161% e uno delle ferrovie tedesche girava a 0,07%. E anche in Italia i tassi, per i bond delle grandi imprese con alto rating, sono molto bassi. Questo, ovviamente, incoraggia le emissioni.
La buona scuola
(Ernesto Galli della Loggia, Corriere) La buona scuola non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti che progrediscono nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli. Ma la buona scuola non è questo. La buona scuola non sono le lavagne interattive, non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire. In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.
La scuola – è il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società. La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.
Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti, un Paese dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare freneticamente i loro smartphone; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nella guida omicida/suicida di motorini e macchinette sportive; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?
Si illude chi crede – come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto – che a tutto ciò si rimedi con “l’educazione civica”, “l’educazione alla Costituzione”, “l’educazione alla legalità” o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i “valori dell’impresa” e il “rapporto scuola-lavoro”, non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’Università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage?
Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di “buona scuola”, ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’autonomia degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che – ci si può scommettere – continuerà a essere.
L’uomo è più vecchio di 500.00 anni
Fino a un paio di secoli fa nessuno pensava, in Occidente, che l’uomo avesse avuto origine da una lenta e graduale evoluzione, perché generalmente si riteneva che l’uomo fosse stato creato da Dio a propria immagine e somiglianza. Così è scritto nelle Sacre Scritture e così si credeva. Fu Charles Darwin, nel 1871, ad affermare per primo, nel suo libro “The descent of Man” (L’origine dell’uomo), che anche noi siamo esseri viventi simili agli altri, e che quindi siamo soggetti alle stesse leggi che governano tutti gli esseri viventi. L’uomo, pertanto, deve aver avuto degli antenati i quali, a loro volta, dovevano possedere delle caratteristiche simili a quelle degli animali cui oggi assomigliamo di più, cioè le scimmie (fra noi e uno scimpanzè il genoma è comune al 95%). Di qui il falso convincimento che Darwin avesse detto che l’uomo discende dalla scimmia. In realtà l’uomo non può derivare da una specie che gli è coeva. Darwin affermò semplicemente che uomo e scimmia dovevano aver avuto, in un tempo relativamente non molto lontano, antenati comuni, così come due cugini hanno dei nonni o dei bisnonni in comune. Andando molto indietro nel tempo, diciamo 3,5 miliardi di anni, si arriverebbe a quegli organismi monocellulari che hanno popolato i mari della Terra per tre miliardi di anni. Negli ultimi 500 milioni di anni è avvenuta l’evoluzione di quei microorganismi in tutte le specie, estinte e ancora viventi, sul pianeta Terra, incluso l’Homo sapiens che siamo noi.
(Ansa.it) L’uomo è diventato più antico di quasi 500.000 anni. Il genere Homo, grazie a una nuova scoperta, è infatti comparso circa 2,8 milioni di anni fa, mentre prima si riteneva che l’essere umano più antico (il famoso scheletro chiamato Lucy) risalisse a 2,3 milioni di anni. A spostare indietro le lancette dell’evoluzione umana sono due studi pubblicati sulle riviste Science e Nature. Il primo, dell’Università dell’Arizona, descrive un fossile recentemente scoperto in Etiopia; il secondo, dell’Istituto Max Planck di Lipsia, analizza, con tecniche moderne, fossili trovati negli anni ’50. Percorrendo strade completamente diverse, i due studi arrivano alle stesse conclusioni. I primi rappresentanti del genere Homo sono più antichi del previsto. I resti fossili che lo dimostrano sono stati individuati nel 2013 in Etiopia, insieme ad altri fossili di Homo habilis scoperti in Tanzania negli anni ’50 e studiati adesso con nuove tecniche. Il fossile scoperto in Etiopia è la più antica testimonianza diretta dell’esistenza dei nostri progenitori e sposta così le lancette dell’evoluzione umana indietro nel tempo di circa 500.000 anni. Si tratta di una mandibola, ritrovata nel sito di Ledi-Geraru, e ha delle caratteristiche moderne, tipiche delle specie appartenenti al genere Homo, a differenza di quella degli Australopitechi da cui ebbero origine gli Homo, ma che non lo sono ancora. A retrodatare la comparsa dell’uomo, in modo indiretto, anche lo studio pubblicato da Nature. Utilizzando metodi di tomografia computerizzata e tecnologie di visualizzazione 3D applicate a fossili scoperti decine di anni fa, i ricercatori hanno ricostruito l’evoluzione di alcune caratteristiche degli Homo e le connessioni con gli Australopitechi. Un’analisi che concorda pienamente con il fossile di Ledi-Geraru, tanto che il fossile ritrovato rappresenta un plausibile legame tra l’Australopithecus afarensis e l’Homo habilis.
Citazione
Assolto per aver commesso il fatto (Jena)