(Emiliano Guanella, La Stampa) Icona moderna dello spirito progressista, alfiere di battaglie storiche come la legalizzazione dell’aborto, i matrimoni fra le persone dello stesso sesso e, soprattutto, la liberalizzazione della marijuana, una legge che entrerà in vigore quest’anno in Paraguay, dando però allo Stato il controllo della vendita e distribuzione della canapa. Molti leader continentali hanno partecipato a Montevideo alla cerimonia del passaggio di consegne al suo successore, per dimostrargli, ancora una volta, la stima e l’affetto che già gli hanno espresso negli ultimi mesi in tutti gli incontri a cui hanno partecipato. Perché Mujica è diventato un punto di riferimento per i governi di sinistra della regione. Piace perché alle parole ha aggiunto i fatti, con uno stile di vita particolarmente austero, da <presidente più povero del mondo>. <Non sono povero – ama ripetere – ma molto ricco, perché la mia ricchezza non viene da cose materiali ma dall’esperienza e dalle battaglie che ho combattuto>. Dal maggiolone blu del 1987 alla scelta di continuare a vivere nella casa in campagna con oche e galline, fino alla decisione di destinare l’ottanta per cento dello stipendio per contribuire alla costruzione di case popolari alla periferia di Montevideo, condomini dove oggi vivono centinaia di famiglie. C’è chi sostiene che un fenomeno politico come il suo era fattibile solo in Uruguay, un Paese di appena tre milioni di abitanti, con l’indice di corruzione più basso del continente e una tradizione di Welfare State che risale ai primi del Novecento. Ma è stato lui stesso a ricordare che quel sistema sociale era stato distrutto dai militari e poi dai governi conservatori.
VEDETE LUCE IN FONDO AL TUNNEL DELLA SINISTRA?
Questo zibaldone, come avrete capito, pende (nonostante dubbi e riserve) dalla parte di Matteo Renzi. Non starò qui a elencarne le ragioni, il cui esame prenderebbe troppo spazio. Tuttavia, un atteggiamento aperto e critico, vuole che si prendano i considerazione anche altri punti di vista, distanti e contrari. Non mi interessano le opinioni della destra (per esempio M5S, Lega, Fratelli d’Italia, o di Renato Brunetta, il più rappresentativo e colossale ballista mai comparso sulla scena di Forza Italia dopo il Gran Capo) bensì dei dissidenti di sinistra del Pd. In particolare è interessante l’intervento di Lanfranco Turci, ex governatore dell’Emilia, ex deputato dei Ds (Democratici di sinistra), persona seria e intellettualmente onesta. L’intervento, avverso al governo di Renzi, include anche una responsabile autocritica del mondo che sta, appunto, alla sinistra del Partito democratico.
(Lanfranco Turci, Circolo Rosselli) Quanto può continuare questa inconcludenza a sinistra? Renzi va avanti come un treno provocando danni su tutti i fronti: l’attacco ai sindacati e ai diritti dei lavoratori (mentre si spacciano balle sui precari), lo svuotamento della democrazia e la costruzione di meccanismi oligarchici (ora siamo arrivati anche al disprezzo aperto del Parlamento e a una norma sulla responsabilità civile dei magistrati che li espone alle intimidazioni degli indagati eccellenti), lo sblocco di nuovi progetti di devastazione territoriale con lo “Sblocca Italia”, la cessione di asset pubblici preziosi per il nostro futuro, come Finmeccanica e Enel ( mentre ora spunta questo nuovo inciucio Rai-Mediaset), l’attacco e il disprezzo per le minoranze interne ed esterne al Pd.
Insomma Renzi spadroneggia, colpisce e offende senza che ci sia un minimo di reazione adeguata, almeno sul terreno minimale di allarme per la democrazia. La sinistra interna si limita a sospirare e quando fa qualche analisi con parole più lucide non ne trae comunque alcuna conseguenza. Il Sindacato è in palese difficoltà. Nonostante il 25 ottobre e lo sciopero generale non è riuscito a attenuare neppure minimamente i contenuti del Jobs Act. Pesa lo stato di difficoltà della massa dei lavoratori ai quali non sono ancora arrivati i segnali della ripresa annunciata da Renzi. Purtroppo il Pil non marcia al ritmo dei tweet! Ma paga anche i suoi ritardi nel coprire i fronti del lavoro scoperti, come il precariato e le partite Iva, oltre che nel mettere a punto una proposta per la gran massa dei disoccupati. Il tutto mentre per anni ha concesso una delega in bianco al PD, senza avvertire che i cambiamenti interni preparavano il terreno per l’arrivo di Renzi.
Susanna Camusso si incazza, anche se è costretta a farlo con un pigmeo politico come Taddei. Landini dà il segno di avvertire il disagio e il rischio di impotenza, ma poi reagisce in modo confuso, agitando una ipotesi di sinistra sociale di cui non si riesce a intendere ruolo e conformazione, mentre non manca chi la strumentalizza per contrapporla alla sinistra politica. La quale ultima sembra bloccata nei suoi piccoli accampamenti a guardarsi l’ombelico, incapace di dare uno sbocco anche ai pochi momenti vitali quale è stato Human Factor a fine gennaio a Milano, dove si era immaginato un processo di rassemblement aperto, come una sorta di work in progress. Di esso non si vede però ancora nessun segno, almeno a livello nazionale. Forse qualcosa si muove in alcune regioni, Liguria in primis. Eppure a me pare di avvertire in giro non solo il truculento rumore dei Salvini di turno e del fascistume che lo accompagna. Chi va in giro trova anche una rinnovata voglia di sinistra, gente che si guarda attorno per ritrovarla. C’è anche una reazione di orgoglio di tanti vecchi militanti trascinati dal Pci al Pd sotto l’effetto di una lunga e complessa anestesia collettiva e che ora si risvegliano dentro un incubo inaspettato. In questa parte della scena devo riconoscere, mettendo a rischio la salute del fegato e l’equilibrio mentale, che per fortuna ci sono anche i grillini. Casinari, confusi, perfino pericolosi, ma almeno in grado di capire il pericolo vero che viene dal ducetto di Rignano!
Il partito di tutti
(Paolo Zinna, Circolo Rosselli) Il 2014 è stato un anno di svolta: la Seconda Repubblica è finita e, senza che ce ne accorgessimo, è cominciata la Terza, che somiglia alla Prima. La Prima Repubblica aveva una configurazione politica monocentrica: un grande partito centrale (la Dc), entro il quale stava tutto e il contrario di tutto, sia dal punto di vista politico (da Scelba a Donat Cattin) sia dal punto di vista sociale (dai sindacalisti della Cisl ai baroni dell’elettricità e ai latifondisti siciliani. Intorno alla Dc, una serie di partiti minori, solo in parte autonomi: a sinistra, un grande partito non coalizzabile (il Pci, che il fattore K teneva lontano dal governo, ma era ben capace di condizionarne le scelte attraverso un certo potere d’interdizione). A destra una sfarinatura di partiti, monarchici e post fascisti, inutili per il governo ma utilissimi per questo o quel provvedimento da contrattare volta per volta. Questa configurazione ha permesso alla Democrazia cristiana di governare per più di quarant’anni e, riconosciamolo, anche di rendere l’Italia un paese “più giusto, più libero e più prospero”.
La vera battaglia politica, allora, si svolgeva entro la Dc. Se il congresso Dc veniva vinto dai fanfaniani o dai dorotei, l’evento decideva la politica del Paese per gli anni a venire. Poco importava quanti voti prendesse la Dc nel complesso (o meglio importava sì, ma solo in quanto influiva sugli equilibri interni). La seconda repubblica era diversissima: tendenzialmente bipolare, grazie a leggi elettorali costruite proprio per farla essere così. Perciò, ha visto alternarsi coalizioni di centro destra (1994, 2001, 2008) e di centro sinistra (1996, 2006). Coalizioni di destra e di centro sinistra, ma non politiche di destra e di sinistra; infatti la logica del sistema conduceva a contendersi la vittoria al centro, a privilegiare gli elettori moderati e le forze in grado di spostare voti di centro, a trascurare le fasce di elettori più predeterminate (che non avrebbero mai votato per l’avversario). In questo sta una delle radici del forte aumento delle astensioni oggi, perché “sono tutti uguali”, i programmi sono poco distinguibili, there is no alternative.
Oggi, invece, c’è un grande partito centrale (il Pd), entro il quale sta tutto e il contrario di tutto, sia dal punto di vista politico (da Fassina a Ichino), sia dal punto di vista sociale (dai sindacalisti della Cigl a Davide Serra). Intorno al Pd c’è una serie di partiti minori di centro, poco autonomi. A destra, ci sarà forse un partito non coalizzabile (la Lega, guidata da Salvini con notevole chiarezza di strategia), che vedo ben capace di condizionare le scelte del governo attraverso un certo potere d’interdizione. E poi c’è una sfarinatura di partiti di sinistra, movimentisti e post comunisti, inutili per il governo ma utilissimi per eleggere questo o quel presidente della repubblica, contrattando volta per volta. Certo, ci sono delle differenze: l’astensione altissima, il partito antisistema di Grillo (che è in fondo un’altra forma dell’astensione).
Quali le conseguenze? Il Pd, innanzitutto, non può non vincere le prossime elezioni. Forse, se ci impegniamo, riusciremo a perdere in qualche regione: possibilissimo, ma non di più. Perciò Renzi ce lo terremo, per i prossimi dieci anni almeno: facciamocene una ragione. Credevo che il Renzi post-ideologico avrebbe alternato momenti di destra e di sinistra. Mi sbagliavo; è privo di ideologia, ma non di strategia, che anzi ha chiarissima e persegue con successo: collocare sé stesso e il suo partito nella posizione della Dc del 1960. Per questo, era necessario spostare a destra il partito, sfasciare il centro, tagliar l’erba sotto i piedi a qualunque destra presentabile. E lui lo ha fatto. Salvini lo aiuta; non c’è bisogno di immaginare accordi sotterranei fra i due (che ne sarebbero capacissimi, peraltro). Già la forza delle cose li rende “alleati di fatto”.
Il Pd non è un partito, nel senso che un partito rappresenta per definizione una parte. Non è l’organizzazione di una parte dei cittadini che condividono alcuni valori. Il partito di Renzi vuole essere il partito di tutti i cittadini (salvo pochi malintenzionati, gufi o populisti di destra): il partito della nazione intera. Questa è l’onesta risposta da dare a tutti i dubitanti, e a noi stessi. Non mi piace, ma bisogna dirsi le cose come stanno. Restano da valutare le possibili scelte per chi si sente di sinistra. Se la lotta politica decisiva si svolgerà entro il Pd, entro il Pd bisogna stare: nulla salus extra ecclesiam. Le riesumazioni di Tsipras, Sel, improbabili iniziative laico socialiste sono operazioni molto gratificanti per lo spirito di chi le fa, ma, in questo quadro, prive di qualunque senso politico. Sì, ma come starci, entro il Pd? Traendo impietosamente le conseguenze da questa fotografia: il Pd non è la “ditta” di Bersani, non c’è più nessuna ditta, dobbiamo rottamare l’idea stessa di ditta.
La lotta politica la faremo per influire dentro lo “pseudopartito”, non verso l’esterno. E non dovremo rattristarci, ogni volta che Renzi farà una mossa di destra: ne farà ancora, finché non sarà certo di aver soffocato ogni possibile destra esterna. Nel frattempo, è buona cosa che il Pd diventi sempre più simile alla Dc, nel suo funzionamento interno: cioè che sia balcanizzato in una confederazione di correnti. E quanto più il partito sarà balcanizzato, tanto più potremo far sentire la nostra voce. Non posso avere la certezza assoluta che la mia visione sia (o continui nel tempo ad essere) corretta. Vediamo alcune ipotesi che potrebbero rovesciare il quadro. 1. Una crisi economica devastante tipo Grexit, con contagio diffuso a tutto il sud Europa: poco probabile. 2 L’uscita di Bersani e D’Alema dal partito (Civati è irrilevante). Sarebbe un disastro per Renzi: peccato che non accadrà mai. 3. La rinascita di una destra seria, che richiede almeno la scomparsa di Berlusconi dalla scena e l’emergere di nuovi leader: è una prospettiva di lungo termine, non attuale. In conclusione, sono evenienze non impossibili, ma a bassa probabilità. Meglio agire in base alle ipotesi più probabili.
La mossa di Salvini
(Giovanni Orsina, La Stampa) Guardate quel che ha fatto Renzi. Ha individuato uno spazio politico vuoto: ha capito che il Paese era “scalabile”, per usare le sue stesse parole. E senza dubbi, senza esitazioni, senza chiedere permesso né mostrare rispetto per niente e nessuno, lo ha occupato. Forse che nel farlo si è dimostrato arrogante, presuntuoso, prepotente? Altroché. Non è però questa la politica: astenersi beneducati, cerimoniosi, cardiopatici e intellettuali perplessi. Ora guardate quel che sta facendo Salvini. L’operazione è la stessa, con una sola, cruciale differenza: là dove per Renzi abbiamo scritto “Paese”, per l’altro Matteo bisogna leggere “Centrodestra”. Alla manifestazione romana il leader leghista ha tuonato soprattutto contro il premier, fin dalla scritta che portava sulla maglietta. Tuttavia, il suo vero obiettivo non è affatto Renzi. O per lo meno non lo è ancora. Al contrario: Renzi è il suo punto d’appoggio. Proponendosi come il suo principale – meglio: il suo unico – oppositore, ossia facendo forza su di lui, Salvini sta cercando di egemonizzare l’intera area che si trova a destra del centro. Milioni di voti.
Nell’immediato, non c’è ombra di dubbio, l’operazione sta avendo successo. Ha successo, innanzitutto, proprio perché i toni sono esasperati, le parole d’ordine semplici, le proposte tagliate con l’accetta: condizioni essenziali, queste, per guadagnare più terreno possibile nel più breve tempo. Molte delle soluzioni ipotizzate, sia detto per inciso, sono pure irrealistiche e incoerenti. Ma a questo gli elettori, abituati da tempo alle iperboli e contraddizioni della politica, fanno meno caso. E poi Salvini ha successo perché non ha antagonisti – a meno di non pensare che i suoi concorrenti per il titolo di “anti-Renzi” siano Pierluigi Bersani o Maurizio Landini. Il Nuovo centrodestra è al governo, e per ciò che riguarda Forza Italia, di Berlusconi da ultimo si parla più per le operazioni aziendali che per quelle politiche. Ma è difficile immaginare che gli elettori conservatori siano disposti, non dico a morire, ma nemmeno ad alzarsi dal letto e uscire di casa col certificato elettorale la domenica mattina, per consentire a Mondadori di comprar Rizzoli o a Ei Towers di comprare Rai Way.
Nel medio e lungo periodo, invece, che ne sarà della Lega e dell’intera destra italiana? Innanzitutto: occupare una piazza romana un pomeriggio per manifestare le proprie ambizioni politiche nazionali è una cosa, riuscire a far dimenticare all’elettorato del Mezzogiorno trent’anni di polemiche antimeridionali è un’altra. Il che non vuol dire che sia impossibile – ma non sarà facile. In secondo luogo, dipenderà moltissimo sia dalla situazione economica, sia dai risultati elettorali e poi dai risultati elettorali che sapranno raccogliere i movimenti anti-europeisti i gli altri Paesi dell’Unione. Che Tsipras sia dovuto “tornare alla realtà”», come ha dette cancelliere Merkel, per la Lega non è una buona notizia.
Due ultime osservazioni, strettamente legate agli eventi della grande adunata a Roma. Com’è noto, oltre a quella di Salvini s’è svolta anche una manifestazione antileghista e antirazzista, con tanto di attori e scrittori al seguito. Bene: è possibile a un liberal democratico come chi scrive sottolineare il terribile sentore di cantina, di residuo d’un tempo remoto, di vuota e ritualistica ripetizione identitaria che emana da questi – del tutto legittimi, ci mancherebbe – esercizi di “vigilanza antifascista”? In secondo luogo. È ben comprensibile che Salvini la sua manifestazione l’abbia voluta fare a Roma, e che di conseguenza pure la contromanifestazione si sia svolta nella Capitale. E grossi disordini e violenze, per fortuna, non ce ne sono stati. Ai romani però non dispiacerebbe affatto se al prossimo giro tutto questo si svolgesse, che so, a Rieti. E se qualche volta, soltanto qualche volta, Roma – una città fragile, inefficiente, sporca, e da ultimo gravata pure dalla sgradevole sensazione d’essere un bersaglio mal difeso – potesse essere risparmiata.
Il debito globale
Nel numero scorso (389) ho riportato un articolo di Dario Di Vico (Corriere) in cui si afferma che il McKinsey Global Institute ha misurato il debito globale: non solo quello degli Stati, anche quello delle famiglie, delle imprese, del settore finanziario. Ne risulta che il mondo è indebitato fino al collo. Tra il 2007 e il giugno 2014, il debito globale è passato da 142 mila miliardi di dollari a 199 mila: 57 mila miliardi in più. Adesso il mio amico Claudio Bellavita mi richiama a una visione più equilibrata del fenomeno.
(Claudio Bellavita, Circolo Rosselli) Stavolta il Mc Kinsey Global Institute ha preso una cantonata, e Dario Di Vico l’ha seguita pedissequamente: come si fa a spargere il terrore sul debito globale del mondo rispetto al Pil senza parlare dei risparmi del mondo? Un’analisi seria dovrebbe essere fatta paese per paese solo sul delta tra debito pubblico più privato, e risparmio privato. Poi, magari, si scopre che a livello globale c’è una enorme quantità di risparmio privato non censito nei paesi di appartenenza perchè spostato nei paradisi fiscali. E anche la dimensione del “non attribuibile” avrebbe un senso per orientare le politiche economiche… Sarebbe un utile esercizio per quella strana banda del Fmi, pesantemente attaccata, nell’ultima assemblea dell’associazione degli economisti americani. L’osservazione più condivisibile è che l’econometria, la tecnica con cui Fmi e banche centrali valutano le conseguenze dei loro interventi, è <tanto scientifica quanto l’astrologia con l’aiuto dei computer>. E la rilevazione Mc Kinsey lo conferma…
La parola democrazia
(Umberto Curi, Corriere) Il nome di Zygmunt Bauman è diventato famoso, al di fuori della comunità scientifica, per l’accostamento alla principale “scoperta” a lui abitualmente attribuita, compendiata nell’aggettivo “liquido”, col quale in un fortunato libro (Modernità liquida) uscito nel 2000, il sociologo polacco alludeva alla società odierna. Come spesso accade, quell’espressione, originariamente coniata per indicare le caratteristiche di una società le cui strutture si scompongono e ricompongono rapidamente e in maniera fluida e volatile, si è trasformata in uno slogan orecchiabile, applicabile alle realtà più diverse, dalla politica alla filosofia, fino allo sport e alla cucina. Con effetti caricaturali facilmente immaginabili. E con la conseguenza, molto meno divertente, di inchiodare lo stesso Bauman alla vacua ripetitività di una formuletta. Un nuovo testo di Bauman appena pubblicato (Stato di crisi) rende giustizia ad uno studioso le cui tesi, come quelle di qualunque altro, sono certamente criticabili, ma che tuttavia non può essere ridotto al raggio angusto di un aggettivo di successo.
Ciò detto si deve anche notare che il libro mantiene solo in parte le impegnative promesse formulate nella prefazione, soprattutto per quanto riguarda la descrizione di quella che viene definita come “postdemocrazia”. Assai puntuale, e immune da ogni indebita sacralizzazione, lo smontaggio della nozione di democrazia, fra Pericle e Alexis de Tocqueville (per indicare “estremi” non solo in senso cronologico). Pienamente condivisibile anche il giudizio complessivo, ricalcato sulla troppo spesso dimenticata affermazione di Jean-Jacques Rousseau (che pure è stato uno dei padri della democrazia moderna): <Secondo il preciso significato della parola si può dire che non è mai esistita una democrazia, e non esisterà mai>. Dichiarazione che potrebbe essere altresì accompagnata da un autore trascurato da Bauman, vale a dire Platone, il quale rileva che, più che una vera e propria forma di governo, la democrazia è <un negozio delle costituzioni> in cui sono esposte disordinatamente tutte le forme di governo.
Il punto vero, tuttavia, sempre eluso dai detrattori della democrazia, e non risolto da Bauman, è un altro, e riguarda appunto l’indicazione di una possibile alternativa. Restituendo al termine “crisi” – costantemente ricorrente nel testo – la sua originaria accezione medica, si potrebbe dire che gli autori sembrano orientati semplicemente a prendere atto del decesso del paziente chiamato democrazia. Una certificazione di morte che potrebbe forse essere evitata, se si applicasse alla nozione di democrazia ciò che un famoso penalista replicò a chi gli faceva notare la totale infondatezza della nozione di pena. E si potrebbe dunque concludere che sì, è vero, la democrazia fa acqua da tutte le parti. Ma, almeno finora, in oltre tremila anni di civiltà occidentale, nessuno è riuscito ad inventare nulla di meglio.
Il vuoto dietro Pisapia?
Intervista a Franco Mirabelli
(Maurizio Gianattanasio, Corriere) Senatore Mirabelli, che ne pensa delle parole dell’Assessore D’Alfonso sulla necessità di ricandidare Pisapia a Sindaco di Milano perché non esiste ancora una classe politica dirigente all’altezza? <Dire che Pisapia deve ricandidarsi perché dietro di lui c’è il vuoto è una stupidaggine. Credo che Giuliano Pisapia debba ricandidarsi perché ha governato bene la città in un momento difficile, nel pieno della crisi economica, che ha condotto altrettanto bene l’avvicinamento ad Expo e ha fatto ripartire la città».
Il perimetro delle alleanze prospettato da D’Alfonso è il modello Milano, quello che ha portato alla vittoria Pisapia nel 2011: la sinistra e la borghesia illuminata. Il Pd è d’accordo? <D’Alfonso sa benissimo che la strada scelta insieme resta quella di costruire un centrosinistra forte allargato al civismo. E Pisapia è consapevole che l’autorevolezza del gruppo dirigente del Pd è una risorsa insostituibile per costruire questo percorso. Invece di fare provocazioni bisogna concentrarsi su due aspetti>. Quali? <Un centrosinistra capace di rivendicare il buon governo di questi anni e come consolidare il centrosinistra in una prospettiva che va oltre Expo. Che idea della città abbiamo, come mettiamo a frutto Expo e quello che verrà prodotto».
Se Pisapia non si ricandidasse, un Pd al 45% potrebbe avere idee diverse sulle alleanze? <L’idea che la discussione tra di noi non debba essere sui contenuti ma riproporre l’opposizione tra partiti e società civile, è sbagliata. Abbiamo dimostrato che si lavora bene insieme. Renzi ha dimostrato che la politica può recuperare spazio senza ritirarsi come è successo di fronte alla crisi delegando alla società civile. A Milano il Pd ha dato un apporto importante all’esperienza di governo. Usciamo dalla contrapposizione tra partiti e borghesia perché non c’è contrapposizione e il governo Pisapia ha dimostrato che si può lavorare bene insieme>. Quindi stessa alleanza? <IL Pd c’è per guidare un progetto di centrosinistra aperto alle liste civiche. Nessuno ci può espellere dalla sinistra. Spero che tutti lavorino in questa prospettiva>.
Mais mandorle mele
(Telmo Pievani, La Lettura) Tutto cominciò quando i ghiacci iniziarono a ritirarsi. Intorno a 11 mila anni fa i rigori glaciali allentarono la presa e le popolazioni umane impararono a coltivare alcune delle piante di cui già si cibavano allo stato selvatico. Non che prima non fosse successo nulla: gli archeologi hanno scoperto macine e pestelli, con i quali venivano preparate farine di tifa (una pianta palustre comune) per fare proto-gallette, in siti di Homo sapiens risalenti a 30 mila anni fa. Quindi nella notte dei tempi molti tentativi di stoccaggio, di semina e di lavorazione delle piante potrebbero aver preceduto la rivoluzione agricola.
Già i Neanderthal masticavano camomilla e sceglievano le piante giuste per disinfettare la bocca e lenire i dolori, ma solo i nostri, i sapiens, capirono come selezionare le piante per i loro scopi, modificandole attraverso simili incroci mirati. Si chiama “selezione artificiale” e può trasformare radicalmente la morfologia e il genoma di una pianta: si scelgono a ogni generazione gli esemplari con le caratteristiche più favorevoli (frutti più dolci e carnosi, semi più facili da raccogliere) e li si fa riprodurre a scapito degli altri. La storia del mais, uno dei cereali più coltivati al mondo, mostra come i primi agricoltori fossero ottimi agronomi, e inconsapevolmente anche genetisti. In Messico, circa 8.700 anni fa, venne selezionata una varietà di teosinte, pianta selvatica cespugliosa che cresce nella Sierra Madre, con una particolare mutazione che riduce il numero delle sue ramificazioni. In questo modo le “pannocchie” (in realtà spighe, le infiorescenze femminili del mais), essendo meno numerose, sono diventate di dimensioni enormi (da un centimetro a quarantacinque). Teosinte e mais oggi sono due piante diversissime, ma il primo è il diretto antenato del secondo.
Risultato: compaiono stranezze genetiche come mele domestiche (il cui progenitore vive nei monti tra Kazakistan e Cina) con un diametro triplo rispetto alle selvatiche, piselli dieci volte più grossi, banane e clementine senza semi. Le mandorle sono geneticamente modificate da migliaia di anni. Quelle selvatiche di origine asiatica infatti sono letali. Contengono amigdalina, una sostanza che, oltre a conferire un sapore amarissimo, durante i processi digestivi si scinde a produrre cianuro: una manciata di mandorle «originali» basta per uccidere un uomo. Una mutazione genetica può però inibire nel mandorlo la produzione di amigdalina. Generalmente questi individui mutanti non si diffondono nella popolazione perché i loro semi vengono mangiati dagli uccelli. Un agricoltore attento deve essersi accorto della piacevole caratteristica di questi esemplari, magari osservando proprio il comportamento degli uccelli, e ne ha fatto incetta favorendone la diffusione, prima inconsapevolmente e poi seminandoli direttamente. Pure le antenate delle solanacee erano tossiche, per difendersi da funghi e insetti, ma grazie alla modificazione genetica inconsapevole oggi mangiamo melanzane (dall’Africa), patate (dalle Ande, dove ancora resistono 5 mila varietà differenti), pomodori e peperoncino (dall’America centrale e meridionale).
Grazie alle piante coltivate, il mondo non fu più lo stesso: la crescita della popolazione innescò colonizzazioni, meticciati e conflitti. L’accumulo di risorse permise la nascita di ceti non produttivi: i sacerdoti e i guerrieri, poi i burocrati (quelli che sapevano scrivere, per esempio per tenere la contabilità dei magazzini) e gli artigiani. La maggiore disponibilità di cibo produsse un aumento della densità di popolazione, che a sua volta incrementò la domanda di coltivazioni. Eppure noi oggi pensiamo che l’agricoltura sia il dominio del “naturale” per eccellenza. In realtà fu il momento in cui per la prima volta l’Homo sapiens riuscì a far produrre agli ecosistemi ciò che naturalmente non avrebbero mai generato. Fu a tutti gli effetti una forzatura della evoluzione. Un vigneto in Toscana o i terrazzamenti delle risaie in Laos oggi ci sembrano l’emblema di paesaggi integri e naturali, ma sono il frutto di migliaia di anni di interventi umani. Nell’evoluzione umana il confine fra naturale e artificiale ha cominciato a sgretolarsi migliaia di anni fa e oggi è impossibile da tracciare.
Se adottiamo uno sguardo evoluzionistico, scopriamo qualcosa di ancora più sorprendente. Noi non coltiviamo le querce e non mangiamo le ghiande (sono amarissime). Solo poche migliaia di specie vegetali sono commestibili, e poche centinaia sono state addomesticate. Affinché convenga investire tempo ed energie per coltivarla, una pianta deve essere ricca di sostanze nutritive, produrre raccolti abbondanti e accessibili, avere una crescita veloce. L’accoppiata di cereali e legumi, per esempio, è un’ottima fonte di energia a base di carboidrati e proteine. Il sapore non deve essere eccessivamente amaro, né il frutto o il seme eccessivamente duri. Possedere o meno queste caratteristiche mise in competizione involontaria le specie vegetali fra loro nell’essere più o meno appetibili per i primi agricoltori. In pratica, alcune piante ci hanno “usati” come veicolo di diffusione e hanno avuto un successo globale. Non solo, le piante si sono coevolute con noi e hanno cambiato la nostra fisiologia, attraverso l’alimentazione, la medicina, la cosmesi, le sostanze psicotrope, le spezie, i tessuti, gli innumerevoli materiali di origine vegetale (dal legno alla carta alla gomma). Insomma, noi pensiamo di averle addomesticate, ma forse sono loro ad avere addomesticato noi.
Citazione
Siamo nati per soffriggere (Rocco Malinterni, nel libro Parlami d’amore, ragù)