ARTURO ACCENDE IL COMPUTER DI CASA – ZIBALDONE N. 384

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Arturo

(Massimo Gramellini, La Stampa) Provo a mettermi nei panni di una persona non particolarmente interessata al racconto del potere (chiunque faccia un mestiere diverso dal politico o dal giornalista). Questa persona, chiamiamola Arturo, accende il computer a casa, o sul lavoro, se ne ha ancora uno, e in tutti i principali siti di informazione trova scritto a caratteri cubitali: <Italicum, sì al Supercanguro>. Immagino che Arturo oscillerà tra perplessità e smarrimento. Chi è Italicum? Ed è davvero tanto importante che abbia detto sì al Supercanguro? La sera, tornato in famiglia, se ne ha ancora una, compulsa freneticamente i telegiornali e vede occhi torti e volti disfatti che si insultano come al solito ma con insolita partecipazione emotiva, come se stavolta si trattasse veramente di vita o di morte. Arturo apprende che Italicum è un mostro mutante. Infatti ha appena cambiato nome, diventando Espositum. <Espositum!>, ripetono voci ansiose dentro lo schermo. <Gotor!>, gridano altre: con ogni probabilità deve trattarsi di un manga giapponese o di un’esclamazione sacra, pronunciata in una lingua della Terra di mezzo nota soltanto a Tolkien. Arturo è scosso soprattutto dal sovraffollamento degli scranni parlamentari. Quando si discuteva di terrorismo o disoccupazione erano desolatamente vuoti, mentre per il Supercanguro c’è il pienone: come è potuto accadere? L’illuminazione gli arriva durante il monologo di un sottosegretario: e se il Supercanguro fosse il marito della Supercazzola? Proprio così, Arturo, e purtroppo hanno fatto molti figli.

Il compromesso elettorale

(Michele Ainis, Corriere) I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali. Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi. E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per cinque anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata.

Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum: premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi su una lettera dell’alfabeto: la «P». Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti. E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia, rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario. Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra “P” da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la “P” del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso.

Come dev’essere
Il prossimo presidente

(Mattia Feltri, La Stampa) C’è una grande, sincera concordia fra le forze politiche: il nuovo presidente della Repubblica deve essere super partes. Seguono qualifiche altrettanto nobili. Deve essere di alto profilo, di indiscusso spessore, un punto di riferimento. <Deve essere legato allo spirito della Costituzione, ai princìpi che i padri costituenti vollero scrivere nella Carta> (Antonio Ingroia). <Deve essere difensore delle istituzioni e convinto europeista> (Lorenzo Cesa). Europeista? Certo, <ma che sia una figura distante dai circuiti europei di potere e che abbia come priorità assoluta la difesa dell’interesse nazionale> (Giorgia Meloni). <E non sia dunque, come Giorgio Napolitano, un collaborazionista dell’Europa delle banche, sempre pronto a difendere i grandi interessi> (Alessandro Di Battista). <E che goda di credibilità all’estero> (Dorina Bianchi). <Ma che allo stesso tempo sia, un grande amico dell’Alto Adige-Sudtirol e dell’Austria, e sia sempre attento e sensibile alle istanze delle autonomie speciali> (Karl Zeller). A cui si affianca – con enfasi più contenuta, almeno geograficamente, il presidente della provincia di Bolzano, Amo Kompatscher: <Abbia attenzione e rispetto per lo Statuto della nostra Autonomia>.

E dunque chi? E dunque, dicono nel Partito democratico, il nome lo facciamo noi. <Sarà un grande arbitro> dice Matteo Renzi. Se il nome lo fanno loro, dice Maurizio Gasparri <il meglio del Pd è Sergio Mattarella>. <Non facciamo nomi>, dice Renzi. <Ma qualunque nome facciate, deve essere uno capace di fermare la persecuzione politica e giudiziaria nei confronti di Silvio Berlusconi> (Daniela Santanché). Però, per la procedura <sia chiaro che dobbiamo eleggere il Capo dello Stato che rappresenta tutti gli italiani, e la scelta non può coincidere con le primarie del Pd> dice Angelino Alfano. <Bravo!> lo conforta Nunzia De Girolamo. <Sia un italiano per gli italiani> dice Stefania Prestigiacomo. <Che rafforzi l’immagine dell’Italia a partire dalla riduzione delle tasse> (Domenico Scilipoti Isgrò – il doppio cognome è una recente conquista). Importante è anche la nerboruta indicazione di Renato Brunetta: <Basta con i presidenti della Repubblica che vengono dal Partito comunista>.

<Me ne basterebbe uno che non firmi qualsiasi cosa> dice Beppe Grillo. <Che non firmi leggi porcate> specifica Luigi Di Maio. <Vanno (?) in Germania, negli Stati Uniti, vanno dai potenti e quando hanno il loro parere lo eleggono> aggiunge Grillo. <Che sia una Merkel italiana!> aggiunge la Meloni. <Anzi, proprio una donna> dice il governatore leghista Bobo Maroni. E che donna? <Anna Finocchiaro è una abbastanza brava, anche se io ci metterei Ettore Alberto Albertoni> (una vecchia ciabatta leghista che sosteneva Umberto Bossi fosse laureato in medicina) dice Umberto Bossi. <La Finocchiaro? Non ce la vedo proprio> dice Matteo Salvini, che preferisce <Angelo Panebianco o Piero Ostellino> Il segretario della Lega mette una condizione irrinunciabile: <Basta coi rottami di sinistra!> categoria alla quale evidentemente non appartiene Piero Fassino, lanciato dal collega leghista di Verona, Flavio Tosi. Ci siamo: il ritratto è quasi completo. Che cosa manca? <Lo vorrei nero> dice Cécile Kyenge. <Non lo vorrei eletto da parlamentari diventati tali grazie all’incostituzionalità del Porcellum> dice Francesco Storace. <Lo vorrei all’altezza di Franco Marini e Romano Prodi> dice Pierluigi Bersani. E poi, attenzione, che c’è l’emergenza lavoro! <Sia autorevole sul lavoro> dice Anna Maria Furlan della Cisl. E attenzione, che c’è l’emergenza terrorismo! <Ne serve uno per contrastare i pericoli del terrorismo che minacciano la nostra nazione> dice Giuseppe Esposito. E attenzione che van fatte le riforme! <Dia una spinta verso una nuova stagione di riforme> dice Carlo Sangalli di Confcommercio. Il dottor Frankenstein?

I candidati

(Fabio Martini, La Stampa) Una overdose informativa di queste dimensioni non si era mai vista nella storia della Repubblica. Oramai da un mese, dalle sette del mattino fino a notte inoltrata, in tutte le reti televisive non si fa che parlare dell’elezione del nuovo Capo dello Stato. Nei contenitori più vari, la curiosità dei teleutenti viene alimentata con notizie, illazioni, fantasie, spigolature. Nota un veterano come il senatore Paolo Naccarato, una vita nella De: <Un bombardamento di queste dimensioni non ha precedenti non soltanto nella storia della Prima Repubblica, ma anche nella storia più recente: nel 2006 quando fu eletto per la prima volta Giorgio Napolitano, l’evento fu seguito più o meno come si era fatto nel passato, quando l’elezione dei presidenti delle Repubblica, pur coinvolgendo l’opinione pubblica, restava un fatto ristretto agli addetti ai lavori>. Ma questa overdose di informazioni potrebbe produrre un effetto assai significativo anche sul profilo del prossimo presidente. Dice Pino Pisicchio, un altro veterano (la sua prima elezione presidenziale risale al 1992): <Non c’è alcun dubbio che nella scelta di Renzi stavolta peserà assai l’impatto sull’opinione pubblica e la scelta del candidato-presidente sarà condizionata da fattori che nel passato non avevano incidenza. A cominciare da quello generazionale>. In effetti nei 66 anni di elezioni di Capi dello Stato il fattore opinione pubblica non ha quasi mai pesato. O forse sì, in occasione della elezione di Sandro Pertini? Purtroppo, neanche quella volta. <Quella volta – ricorda il socialista Rino Formica – la Dc era in ginocchio e lasciò la scelta al Psi. Craxi indicò una terna: Antonio Giolitti, Giuliano Vassalli e Sandro Pertini. Furono i comunisti a porre due veti. Un grande giurista antifascista come Vassalli fu scartato perché aveva difeso Lefebvre, mentre il no a Giolitti di fatto su motivato perché era stato nel Pci e ne era uscito>. E dunque Pertini, solo dopo essere eletto, diventò il Presidente più amato dagli italiani. E proprio questa ipersensibilità agli umori dell’opinione pubblica in queste ore sta tagliando la strada a candidati, come Giuliano Amato, che in un “concorso per titoli” sarebbe nella prima terna. Il presidente del Consiglio, molto sensibile alla popolarità sua e dei suoi cari, pur stimando Amato, non lo ha mai considerato in corsa. Ma non si sa mai…

La brigata Kalimera

(Huffington Post) L’obiettivo è ambizioso, quasi proibitivo: riprendere in mano le sorti di una sinistra messa all’angolo dal renzismo e relegata nei sondaggi a percentuali da 3/4%; e portarla, se non alla vittoria, almeno ad essere politicamente rilevante. Per farlo, i delegati della brigata Kalimera (così si sono battezzati i parlamentari e militanti del mondo alla sinistra del Pd, ovvero quell’area che alle ultime elezioni orbitava intorno alla lista Tsipras, ma anche un certo numero di dissidenti del Pd stesso) partiranno alla volta della terra dove questa riscossa della sinistra è riuscita per davvero, a prendere “lezioni” dal suo principale artefice: Alexis Tsipras. Il gruppo arriverà ad Atene pochi giorni prima del voto che, secondo gli ultimi sondaggi, potrebbe portare il leader di Syriza a una storica vittoria per la Grecia, schiacciata da anni di austerity. <Pensavamo di essere una trentina e invece abbiamo già superato i 200>, ha spiegato Raffaella Bollini dell’Arci, tra le promotrici dell’iniziativa. Ma chi c’è tra gli sponsor di questa eterogenea delegazione che sogna di poter dare vita a una Syriza italiana?

Si parte innanzitutto da quella parte della minoranza Pd sempre più a disagio in un partito a immagine e somiglianza del suo leader, Matteo Renzi. In primis Pippo Civati, che da mesi temporeggia sull’uscita dal partito in assenza di una grande piattaforma a sinistra che ancora non esiste ma che la spedizione greca potrebbe aiutare a fare aggregare. Con lui, un ex nemico interno che ora invece condivide con Civati la leadership dell’opposizione, l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina. Il tutto mentre, sullo sfondo, anche Sergio Cofferati, dopo il caos delle primarie liguri, potrebbe candidarsi a diventare proprio uno dei principali punti di riferimento di questa nuova area politica. Non solo Pd, però.

Tra i delegati “gold” della brigata Kalimera, almeno come supporter di rilievo, c’è il leader di Sel Nichi Vendola, che prossimo a lasciare la presidenza della Regione Puglia, punta a far diventare il suo partito il centro di gravità di questa nuova aggregazione. E il sogno di risvegliare la sinistra italiana riporta temporaneamente insieme anche vecchi antagonisti. Accanto a Sel, c’è quel che resta di Rifondazione Comunista, come il leader Paolo Ferrero o figure come Antonio Ingroia, uscite con le ossa rotte dalle ultime elezioni politiche, ma non ancora disposte a tirare i remi in barca. In fondo, la lezione che Syriza è che “l’altra sinistra” è non solo possibile ma può diventare forza di governo. Anche scacciando gli spettri di una possibile uscita dall’euro, che al momento, nemmeno lo stesso Alexis Tsipras evoca più. I punti ora sono altri, e vanno da un rafforzamento dello stato sociale con un aumento della spesa pubblica alla rinegoziazione di una parte del debito estero greco. Impensabile, soltanto qualche anno fa.

I dolori del giovane Civati

(Giorgio Montefoschi, Corriere) Fino a qualche tempo fa, ogni volta che a Roma — beh, non in tutta Roma: attorno o dentro i Palazzi del Potere — veniva piazzata una telecamera sopra un cavalletto, ecco che da un vicolo o da un corridoio lì nei pressi sbucava l’onorevole Pippo Civati. Con passo felpato, un lieve sorriso sulle labbra, l’espressione muta, ma eloquente, di chi chiede <volete che vi dica qualcosa?> si avvicinava alla telecamera e, forse un po’ per abitudine o per mancanza di altri interlocutori, lo vedevamo ovunque. Non parliamo dei talk show: era dappertutto. Ora, appunto, era una po’ che sembrava scomparso. Il mistero lo ha rivelato lui stesso ed è apparso sul Corriere: si tratta della signora Rossana, la mamma di Pippo, e di suo marito. <I miei genitori>, ha dichiarato Civati, <vorrebbero che uscissi dal Pd. Ma io resisto>. Civati è un bel ragazzo ma non merita la definizione che di lui ha dato Giuliano Ferrara: <Un indossatore da sartoria di qualità>. Civati ha fatto le primarie (e le ha sontuosamente perse), fa una strenua battaglia politica, e ha le sue idee. Idee che, sostanzialmente, si possono concretizzare in un no a quasi tutto. In particolare alle decisioni che vengono prese dalla maggioranza del partito di cui fa parte: preferenze, soglie di sbarramento, alleanze, patti, proposte, 80 euro, inciuci, candidati. Però, nonostante tutti questi dissensi, lui, Civati, nel suo partito vorrebbe restarci; è la mamma che non vuole e preconizza che dovrà uscirne prima o poi. Quindi (si fa per dire) il dramma. Come si fa a continuare a opporsi a ogni iniziativa del partito e restare nel partito, oltretutto dispiacendo alla mamma? Meglio sparire per un po’, fino al momento di fare chiarezza e prendere una decisione. O dentro o fuori. Nel frattempo, i conduttori degli smorti talk show della politica si fregano le mani. Dopo la trovata geniale di Alexis Tsipras e di Marine Le Pen, avranno, insieme alla Santanchè, Gomez e Freccero, anche la mamma di Pippo Civati. Magari con lui medesimo, per il contraddittorio definitivo.

Musulmani

(Danilo Taino, Corriere) Dal punto di vista strettamente demografico, la popolazione di religione musulmana non sta per conquistare il mondo. È però quella che cresce di più a livello globale, con un aumento annuo dell’1,5%, contro lo 0,7% della popolazione non musulmana. La differenza nel tasso di crescita è una ragione strutturale della “dinamicità” – in positivo o in negativo – dell’Islam in questi tempi. L’analisi più approfondita di queste tendenze è stata realizzata dal Pew Research Center (americano). Il primo dato interessante riguarda la curva demografica: nel 1990 si trattava di 1,1 miliardi di persone, il 19,9% del totale degli abitanti della Terra; nel 2010 il numero saliva a 1,6 miliardi, il 23,4% del totale; e sulla base degli andamenti demografici attuali i musulmani saranno 2,2 miliardi nel 2030, cioè il 26,4% della popolazione mondiale. Il rapporto numerico tra sunniti e sciiti dovrebbe rimanere stabile, nei prossimi vent’anni: come oggi, tra I’87 e il 90% dei musulmani sarà sunnita (attorno ai due miliardi nel 2030) e il 10-13% sciita. La distribuzione geografica dell’Islam invece cambierà. Il Paese con più musulmani oggi è l’Indonesia (205 milioni) che nel 2030 sarà però superata dal Pakistan, che ne avrà 256 milioni. Oggi, il 62,1% dei musulmani vive nella regione Asia/Pacifico ma nel 2030 questa quota scenderà al 59,2%; salirà invece la quota degli islamici che vivono nell’Africa subsahariana, dal 15 al 17,6%. In Europa, oggi vive il 2,7% del totale dei musulmani e si prevede che la percentuale non cambierà. Ciò significa, però, che nel Vecchio Continente i musulmani passeranno da 44 a 58 milioni, cioè dal 6% della popolazione del 2010 all’ 8% del 2030. Con quote che in alcuni Paesi saranno piuttosto significative. In Italia i musulmani raddoppieranno: da 1,6 milioni (2,6% della popolazione) a 3,2 milioni (5,4%). In Francia passeranno dal 7,5 al 10,3% (6,9 milioni). In Belgio dal 6,0 al 10,2%. In Gran Bretagna dal 4,6 all’ 8,2%. In Germania dal 5,0 al 7,1%. Non un ribaltamento demografico totale ma una chiara crescita relativa.

Venezuela

(Omero Ciai, Repubblica) <Che umiliazione> sbotta Karina. Ha meno di quarant’anni, è casalinga, sposata con un maestro di scuola, ha due figlie di 15 e 6 anni. Karina è una donna della classe medio/bassa del Venezuela, prototipo di quelli che hanno incoraggiato, sostenuto, amato, l’avventura del chavismo nella costruzione del Socialismo reale, con espropri di Stato e progetti sociali. Ha sempre votato per Chàvez dal ’98 a quando è morto. Nel marzo del 2013 ha votato per il successore designato, l’imponente Maduro, ex giovane maoista, ex sindacalista ferroviere, fanatico di Fidel Castro e del “modello cubano” ora un po’ spiazzato dalla “pax americana” di Cuba. <Che umiliazione – insiste Karina – ormai passo tutta la giornata a cercare il minimo indispensabile per la mia famiglia. Ieri, dopo mesi, ho trovato un pacchetto di lamette da barba per mio marito. Uno, soltanto uno>. A caccia di farina di mais per l’arepa (il pane venezuelano) decidiamo di spostarci dall’altra parte della città, nei quartieri bene di Caracas dove tutto costa il doppio o il triplo, ma la carestia di prodotti è di poco inferiore. Karina è furibonda mentre corre lungo gli scaffali in cerca di farina e Tampax. Alla fine le viene da piangere: <Non dovevano farci questo, non dovevano. In questo paese c’era tutto, magari io non avevo i soldi per comprarlo, ma i supermercati erano pieni di cose, dieci possibilità di scelta per ogni prodotto. Cosa è successo? Perché?>.

Quando ha cominciato col Socialismo, la prima cosa che Chavez ha distrutto sono state le aziende: agricole, commerciali, industriali. Erano i nemici di classe. Quel che ha potuto, lo ha espropriato e nazionalizzato. Poi, spinto dalla straordinaria crescita del prezzo del petrolio all’inizio del 2000, ha trasformato il Venezuela in un importatore secco. Non si produce più nulla, oro nero a parte. Ma anche l’oro nero ha bisogno di manutenzione. Quando Chàvez espropriò la holding privata del petrolio, dalle viscere del Paese uscivano 3,4 milioni di barili di greggio al giorno. Lui tagliò le teste (figurativamente) dei suoi nemici, e così migliaia di tecnici con il know how indispensabile, se ne andarono all’estero. Risultato: dieci anni dopo la produzione è scesa a 2,5 milioni, un terzo in meno. Il crollo dei prezzi ora fa il resto. <È la tempesta perfetta>, dicono i dirigenti dell’opposizione. Ma più che la fine del “chavismo”, il vero rischio è il caos, una situazione in cui nessuno possiede formule per alleviare il cataclisma.

L’anno scorso il Pil è diminuito di un altro 3 per cento. L’inflazione sfiora il 65 per cento. L’indice di scarsità dei prodotti, tutto quello che non si trova, supera il 70 per cento. Quello appena iniziato è un anno elettorale, si rinnova il Parlamento, e Maduro da mesi ritarda la stangata sempre più inevitabile: grossi tagli alle spese e svalutazione. La settimana scorsa, il presidente venezuelano, s’è messo in viaggio in cerca di crediti per salvare il salvabile. Mosca, Pechino, Teheran, <perché il terremoto nei prezzi del petrolio è una scelta di Washington per mettere in ginocchio Venezuela, Russia e Iran>. Ma al di là delle parole, non ha trovato quello di cui ha bisogno: fondi liquidi per scongiurare la bancarotta o le rivolte per la fame. Neppure i mandarini di Pechino, che sono già esposti con il Venezuela per 50 miliardi di dollari, hanno aperto la borsa. La tempesta perfetta per il movimento chavista sembra essere arrivata al traguardo.

Una vita esemplare

Confesso che leggendo questo articolo di Corrado Stajano, ho provato un certo orgoglio per il fatto di essere torinese. I torinesi citati in questo articolo li ho conosciuti tutti (eccetto Leone Ginzburg), sono stati i miei maestri, ho frequentato le loro lezioni, conferenze, dibattiti; e, benché modestissimo allievo, sono lieto di testimoniare i loro valori e il loro valore.

(Corrado Stajano, Corriere) Magistrato, tra i fondatori del Partito d’Azione, capo partigiano, uomo della Repubblica alla quale dedicò la vita di opere e di studi senza mai chiedere nulla. Giorgio Agosti è l’esempio e il modello di quelle non poche energie positive che anche dopo la Seconda guerra mondiale sarebbero state importanti per rendere il Paese veramente più libero e giusto, sprecate invece da una società politica incapace di creare una classe dirigente onesta e culturalmente avanzata. Paolo Borgna, anch’egli magistrato e storico, racconta nella biografia, attenta e partecipe, non soltanto la vicenda umana e politica di Giorgio Agosti, ma riesce a far rivivere la Torino del passato prossimo e remoto, con la sua rete di amicizie e di idee solidali. Rimbalzano tra le pagine i nomi di Leo Valiani, Vittorio Foa, Franco Venturi, Dante Livio Bianco, Carlo Dionisotti, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e di Alessandro Galante Garrone. E anche i nomi degli amici non torinesi, Salvemini, Calamandrei, Ernesto Rossi, Ugo La Malfa, Ferruccio Parri.

Nato nel 1910 in una famiglia agiata della borghesia torinese, il padre medico, la madre studiosa di lingua e di letteratura polacca, Giorgio Agosti – cugino di Aldo Garosci – frequenta il famoso liceo D’Azeglio, culla, allora, di tante intelligenze; e poi l’università di via Po dove insegnavano maestri come Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Gioele Solari. Già nel 1932 Garosci e Franco Venturi sono esuli a Parigi, e a Torino è Vittorio Foa il referente di Giustizia e Libertà, movimento al quale Agosti aderisce fin da giovane. In magistratura dal 1935, qualche anno dopo fa frequenti viaggi in Polonia, la sua seconda patria, in Belgio, in Francia dove diventa il contatto con i fuoriusciti, messaggero di documenti antifascisti.

La guerra scellerata del fascismo, con la distruzione delle città e degli uomini mandati a morire in Grecia, in Africa, in Russia: gli italiani migliori sono costretti a desiderare la sconfitta del loro Paese. La lotta di liberazione è per Agosti il naturale riscatto; lotta di minoranza ma eredità delle minoranze risorgimentali. Non è un ideologo, Agosti, ma uno storico, e lo dimostrano i suoi studi, il carteggio con Dante Livio Bianco, i libri, Un’amicizia partigiana, il suo diario Dopo il tempo del furore, la cura degli Scritti vari di Salvemini e del Diario di Calamandrei. Il coraggio dei giorni grigi, il bel titolo della biografia, affronta soprattutto il dopo della Resistenza, quando Torino, come Genova e Milano viene simbolicamente liberata dai partigiani prima dell’arrivo degli Alleati. Con dei flashback che rimandano al passato di guerra. Ada Gobetti, la vedova di Piero, incontra in Tribunale il giudice istruttore Agosti nel ’44. <Il suo studio — scriverà — è frequentato press’a poco come la mia casa; e credo che sia anche un magnifico deposito di stampa e magari d’armi. La sua aria leggermente ironica è ottima contro ogni forma di esaltazione>. Quando, nell’aprile del ‘44, gli uomini del Comitato militare di liberazione, arrestati per una spiata nel Duomo di Torino, vengono processati dal Tribunale speciale fascista e già sanno che saranno condannati a morte, fucilati nella schiena, il giudice Agosti va ad abbracciarli platealmente di là dalle sbarre della gabbia.

E’ un uomo coraggioso, Agosti, che detesta la retorica, l’eroismo di maniera, il reducismo. Il borghese di buona famiglia diventato latitante svaligia una caserma della Guardia alla frontiera da dove se ne va carico di armi; fa fuggire prigionieri alleati; diffonde giornali clandestini; recapita la sentenza partigiana di condanna a morte a un noto penalista torinese che la sera prima giocava a poker con il comandante tedesco Alois Schmidt la sorte di ebrei e ostaggi politici prigionieri delle SS. Ma la sua vera funzione di somma responsabilità è quella di commissario politico delle formazioni di Giustizia e Libertà per il Piemonte. Grande organizzatore, equilibrato, usa il buon senso, sa che cosa significa comandare e farsi ubbidire. È temuto ma è anche amato. Dopo la Liberazione viene nominato dal Cln questore di Torino. Un lavoro difficile e delicato in un tempo di fuoco. Diventa il custode della legalità: poco prima avallava controvoglia, per stato di necessità, la rapina alle banche e ai beni dei gerarchi. È la parte più interessante e più nuova del libro di Borgna, l’avventura di un questore partigiana Che il primo giorno in carica trova sul suo tavolo un ordine del questore fascista: <Sparare a vista sul sovversivo Agosti>. Ora lavora per smussare le violenze, i rancori e il desiderio di vendicare i propri morti.

Non è impresa da poco far convivere i partigiani diventati poliziotti con gli agenti del tempo fascista rimasti negli organici, almeno quelli che non hanno commesso delitti. Occorre pazienza, coraggio, senso di responsabilità per riunire uomini che fino a poco tempo prima potevano essere di qua o di là da un plotone di esecuzione, vittime o carnefici. Sono i tempi dei tribunali di guerra e poi delle Corti d’Assise del popolo. Gli uscieri fanno meccanicamente il saluto romano, i doppiogiochisti si appuntano il distintivo di Giustizia e Libertà, i partigiani dell’ultima ora abbondano. Agosti fa quel che deve, prima della nomina ha restituito la sua tessera di partito, ora è soltanto un uomo dello Stato, intransigente e appassionato nello stesso tempo, che non rinuncia ai suoi principi di moralità crede nella politica pulita. <È l’etica del dovere, la regola del “fai quel che devi”, appresa dall’esempio familiare e dai suoi maestri, che diventa per Giorgio Agosti imperativo morale> scrive Borgna concludendo il suo libro.

Come sarà il 2015

Phones – Wireless / Cooking – Fireless / Cars – Keyless / Food – Fatless / Tires – Tubeless / Youth – Jobless / Leaders – Shameless / Relations – Meaningless / Attitudes – Careless / Babies – Fatherless / Feelings – Heartless / Education – Valueless / Children – Mannerless / We are – speechless / I am scared — shitless /

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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