Riprendiamoci la politica – ZIBALDONE NUMERO 379

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QUI SAN GIULIANO
UNA LETTERA DI MARCO MAGRI
RIPRENDIAMOCI LA POLITICA: UNA PROPOSTA

Caro Lorenzo, dalle notizie e commenti della stampa e che tu ci riporti periodicamente nel tuo Zibaldone, pare che la politica, almeno quella che stimo vivendo in questi ultimi anni, sia sempre più un argomento da cronaca nera. I recenti fatti di Roma ne sono un ulteriore esempio, in una spirale che sembra non avere fine. Nello stesso tempo il quadro politico (ma dobbiamo ancora chiamarlo così?) della nostra Italia è talmente in movimento che spesso, pensare di leggere gli avvenimenti con la lente e gli stereotipi che abbiamo usato fino ad oggi, appare più che obsoleto un esercizio inutile. Il tutto va a rafforzare quel sentimento di insofferenza verso la gestione della cosa pubblica che si traduce nel forte livello di astensionismo in regioni che fino ad oggi pensavamo essere immuni come l’Emilia Romagna.

L’insofferenza degli italiani per la politica ha raggiunto livelli tali che anche etichettare qualcosa con l’aggettivo politico può apparire dispregiativo. Non parliamo poi della parola “partito”: movimento, popolo, gruppo, lista, possono forse ancora andare, ma partito proprio no. Come non dare torto a questa linea di tendenza frutto purtroppo di anni di “cattiva politica” in un paese come il nostro dove la tendenza ad affidarsi ad una persona “salvatore della patria”, risolutore di tutti i problemi piuttosto che al confronto democratico, è sempre stata molto forte. L’antipolitica è un’opportunità per ottenere consensi fin troppo facile in momenti di crisi non solo economica ma anche sociale, come quelli che stiamo vivendo oggi. Basta trovare un nemico (vero, falso, poco importa) meglio se ha un impatto sulla “pancia” o sulle “paure” della gente ed il gioco è fatto. Ed in questo un forte alleato e complice è sicuramente la televisione che, alla ricerca dell’audience, non fa altro che fungere da cassa di risonanza alle posizioni più estreme ed ad effetto. Ne sanno qualcosa Grillo e Salvini che facendo leva sulla rabbia verso la malapolitica l’uno e sulla paura del diverso l’altro, sono riusciti ad ottenere consensi. Ovviamente questo non vuol dire che i problemi che hanno posto alla base del loro consenso non esistono. Anzi, bisogna cercare di mettervi mano in maniera urgente ed incisiva. 

Ma, paradossalmente, dal rifiuto della politica si esce solo con più politica, o meglio, recuperando il senso vero della rappresentatività e della ricerca del bene comune. Una politica intesa come confronto dialettico, ricerca del consenso. Se non vogliamo che il vocabolo “politica” scompaia definitivamente dal vocabolario, da qualche parte bisogna pure iniziare e per fare sì che questa non sia l’ennesima serie di considerazioni senza proposte, mi sento di avanzarne una. Se analizziamo la crisi di rappresentatività che la politica sta portando con sé, notiamo che man mano che ci si allontana dal “vicino” e “visibile” (condominio, via, quartiere, frazione) per andare verso i livelli più alti (regione, nazione) l’insofferenza non fa altro che aumentare in maniera proporzionale alla distanza che noi percepiamo tra i problemi reali che viviamo e coloro che sono deputati a risolverli.

E’ un dato di fatto che la fiducia in un Sindaco è maggiore di quella riposta in un consigliere regionale o in un deputato. Non a caso le discussioni di rilevanza pubblica su Facebook (ormai diventata vera e propria piazza virtuale) avvengono nella maggior parte dei casi su problemi concreti (la luce, la buca, il marciapiede, etc.), dove la gente non ha problemi ad esporsi pubblicamente. Se “vicino e visibile” è qualcosa che sa smuovere le persone per un impegno diretto nella cosa pubblica (cioè nella politica): perché non cercare di ripartire da qui per cercare di fare riprendere fiducia ad una idea di rappresentatività nuova che sia vissuta come utile. A questo riguardo una proposta concreta per l’ambito cittadino sangiulianese potrebbe essere quella di recuperare la rappresentanza politica ed amministrativa di alcune frazioni, che, pur presente e contemplata nello Statuto Comunale di San Giuliano (art. 54), non è mai diventata realtà.

Quando fu approvato lo Statuto Comunale attuale, svolgevo il ruolo di presidente della Commissione preposta e ben ricordo il dibattito sui consigli di quartiere/frazione tra chi vedeva in questa opportunità solo una frammentazione (ed una diminuzione del controllo da parte dei partiti) e chi credeva che una rappresentanza validata da un consenso elettorale avrebbe dato più credibilità e peso ad alcune frazioni e ai comitati che già da allora esistevano all’interno del nostro Comune. Basti pensare a Sesto Ulteriano, Borgolombardo, Zivido, Civesio e si ha una idea dell’importante ruolo che questi organismi potrebbero svolgere. Personalmente propendevo per questa seconda ipotesi, credendo che una maggiore partecipazione avrebbe portato anche ad una maggiore selezione e preparazione di coloro che volevano partecipare alla vita pubblica, inclusi in prima fila i consiglieri comunali. Purtroppo la maggioranza non era della stessa idea e questa ipotesi venne abbandonata adducendo la giustificazione che queste strutture cosiddette intermedie non avrebbero mai funzionato.

A distanza di diversi anni, e con la situazione che si è venuta a creare, forse varrebbe la pena di riprendere in mano tutto questo capitolo. C’è ovviamente da approfondire alcuni passaggi (in primo luogo una qualche forma di collegamento tra consigli di frazione e consiglio comunale), resta però il fatto che bisogna lavorare perché la gente si possa riappropriare della politica, quella “buona e utile” di cui abbiamo tutti bisogno per sentirci più partecipi. Partire dalle realtà più vicine stabilendo le regole di partecipazione, può essere un buon esempio ed un utile esercizio anche per chi attualmente sta gestendo la cosa pubblica affinché si lavori anche per andare alla radice dei problemi convinti che più c’è partecipazione più ci sono idee e persone valide per risolvere i problemi stessi.

www.mmdiario.wordpress.com

Italiani da esportazione
(Massimo Gramellini, La Stampa) Una fondazione filantropica con sede a Dubai ha messo in palio un milione di dollari per il professore più bravo del mondo. Dopo scremature estenuanti sono rimasti in cinquanta a contendersi il premio, e tra loro due italiani. Equamente distribuiti, una donna del Nord e un uomo del Sud. Due su cinquanta è percentuale quasi clamorosa, di sicuro superiore a quelle avvilenti che l’Italia è solita racimolare nei rapporti internazionali sulla qualità dell’istruzione. Dove sta l’inghippo? Da nessuna parte. L’inghippo, come sempre, siamo noi. Basta scorrere le storie dei due fuoriclasse nostrani per rendersene conto. Daniela Boscolo insegna ai diversamente abili di Rovigo e Daniele Manni agli informatici di Lecce, ma per il resto sembrano gemelli. Entrambi hanno colpito gli esaminatori per la passione contagiosa e lo scarso rispetto dei programmi tradizionali. Lei ha aiutato gli studenti a creare un supermercato all’interno della scuola. Lui diverse micro-imprese già in grado di produrre utili. Entusiasti, creativi, allergici alle regole. Capaci di supplire con lo spirito di iniziativa alle carenze del sistema. Due italiani, insomma, così come se li immagina imo straniero. Quelli che, su una scacchiera in cui tutte le pedine si muovono in linea retta, sanno scartare con la mossa del cavallo. In una cosa il machiavellico Renzi ha ragione: l’italiano rassegnato, abulico e prevedibile di questi anni di crisi è peggio di un controsenso. E’ una controfigura che il mondo si rifiuta di consolare e finanche di comprendere. Il mondo è disposto a lasciarsi incantare, e all’occorrenza buggerare, soltanto dall’originale.

Il rammendo delle città
Questo articolo, scritto dall’architetto Renzo Piano per il “Sole24Ore”, contiene insegnamenti utili e suggestivi. Utili non solo ai giovani e in particolare ai giovani architetti, ma soprattutto agli amministratori di città periferiche come la nostra, San Giuliano Milanese, che non balza all’occhio per grande bellezza, ma avrebbe gli spazi per essere rammendata. L’articolo è lungo, ma vale la pena di uno sforzo e leggerlo tutto.

Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie, la città del futuro, quelle dove si concentra l’energia umana e quelle che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. Siamo un Paese che è capace di costruire i motori delle Ferrari, robot complicatissimi, che è in grado di lavorare sulla sospensione del plasma a centocinquanta milioni di gradi centigradi. Dunque possiamo farcela, perché l’invenzione è nel nostro Dna. Come dice Roberto Benigni, all’epoca di Dante abbiamo inventato la cassa, il credito e il debito: prestavamo soldi a re e papi, Edoardo I d’Inghilterra deve ancora renderceli adesso. Se c’è una cosa che io possa fare come senatore a vita, non è tanto discutere di leggi e decreti, c’è già chi è molto più preparato di me. Non è questo il mio contributo migliore, perché non sono un politico di professione né un uomo di legge, ma un architetto, che però è un mestiere politico.

Se c’è qualcosa che io possa fare, è mettere a disposizione l’esperienza, che mi deriva da cinquant’anni di mestiere, per suggerire delle idee e per far guizzare qualche scintilla nella testa dei giovani. Una scintilla di una certa urgenza, con una disoccupazione giovanile che sfiora una percentuale elevatissima. Quindi con il mio stipendio da parlamentare ho assunto sei giovani, che ruoteranno ogni anno e che si occuperanno di come rendere migliori le nostre periferie. Perché le periferie? Perchè le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità: quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l’energia. I centri storici ce li hanno consegnati i nostri antenati, la nostra generazione ha fatto un po’ di disastri, ma i giovani sono quelli che devono salvare le periferie. Spesso alla parola periferia si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili?

Qualche idea io ce l’ho, e i giovani ne avranno sicuramente più di me. Bisogna però che non si rassegnino alla mediocrità. Il nostro è un Paese di talenti straordinari, i giovani sono bravi e, se non lo sono, lo diventano per la semplice ragione che siamo tutti nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è la nostra cultura umanistica, la nostra capacità di inventare, di cogliere i chiaroscuri, di affrontare i problemi in maniera laterale. La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si deve mettere un limite alla crescita anche perché diventa economicamente insostenibile portare i trasporti pubblici e raccogliere la spazzatura sempre più lontano. Oggi la crescita anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c’è un sacco di spazio disponibile. Parlo d’intensificare la città, di costruire sul costruito. In questo senso è importante una green belt come la chiamano gli inglesi, una cintura verde che definisca con chiarezza il confine invalicabile tra la città e la campagna.

Un’altra idea guida nel mio progetto con i giovani architetti è quella di portare in periferia un mix di funzioni. La città giusta è quella in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si fa la spesa. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università Andiamo a fecondare con funzioni catalizzanti questo grande deserto affettivo. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d’incontro, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità. Oggi i miei progetti principali sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall’Università di New York a Harlem al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che prevede anche una stazione ferroviaria e del metrò e un grande parco. E se ri sono le funzioni, i ristoranti e i teatri ri devono essere anche i trasporti pubblici. Dobbiamo smetterla di scavare parcheggi. Penso che le città del futuro debbano liberarsi dai giganteschi silos e dai tunnel che portano auto, e sforzarsi di puntare sul trasporto pubblico. Non ho nulla contro l’auto ma ci sono già idee, come il car sharing, per declinare in modo diverso e condiviso il concetto dell’auto. Credo sia la via giusta per un uso più razionale e anche godibile dell’automobile.

Servono idee anche per l’adeguamento energetico e funzionale degli edifici esistenti. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici, del 70-80 per cento, consolidare le 20.000 scuole a rischio sparse per l’Italia. Alle nostre periferie occorre un enorme lavoro di rammendo, di riparazione. Parlo di rammendo, perché lo è veramente da tutti i punti di vista, idrogeologico, sismico, estetico. Ci sono dei mestieri nuovi da inventare legati al consolidamento degli edifici, microimprese che hanno bisogno solo di piccoli capitali per innescare un ciclo virtuoso. C’è un serbatoio di occupazione. Consiglio ai giovani di puntarci: start up companies con investimenti esigui che creano lavoro diffuso. Prendiamo l’adeguamento energetico: con minuscoli impianti solari e sonde geotermiche che restituiscono energia alla rete, l’Italia è un campo di prova meraviglioso: non abbiamo né i venti gelidi del Nord né i caldi dell’Africa, però abbiamo tutte le condizioni possibili dal punto di vista geotermico, eolico e solare. Si parla di green economy però io la chiamerei Italian economy. Nelle periferie non c’è bisogno di demolire, che è un gesto d’impotenza, ma bastano interventi di microchirurgia per rendere le abitazioni più belle, vivibili ed efficienti.

In questo senso c’è un altro tema, un’altra idea da sviluppare, che è quella dei processi partecipativi. Di coinvolgere gli abitanti nell’autocostruzione, perché tante opere di consolidamento si possono fare per conto proprio o quasi, che è la forma minima dell’impresa. Sto parlando di cantieri leggeri che non implicano l’allontanamento degli abitanti dalle proprie case ma piuttosto di farli partecipare attivamente ai lavori. Sto parlando della figura dell’architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati. Nel 1979 a Otranto abbiamo fatto qualcosa di molto simile con il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall’Unesco per “rammendare” il centro. Un consultorio formato da architetti condotti potrebbe essere un’idea per una start up. Nelle periferie non bisogna distruggere bisogna trasformare. Per questo occorre il bisturi, non la ruspa o il piccone.

C’è ancora una cosa che voglio consigliare ai giovani: devono viaggiare. Mica per non tornare più: però viaggiare secondo me serve a tre cose. Prima e più scontata, per imparare le lingue; seconda, per capire che differenze e diversità sono una ricchezza e non un ostacolo. Terza, per rendersi conto della fortuna che abbiamo avuto a nascere in Italia: perché se non si va all’estero si rischia di assuefarsi a questa grande bellezza e a viverla in maniera indifferente. Si tratta di una bellezza che non è per nulla inutile o cosmetica, ma che si traduce in cultura, in arte, in conoscenza e occupazione. È quella che dà speranza, che crea desideri, che dà e deve dare la forza ai giovani italiani.

 

Civiltà a confronto
<Senza alcun dubbio la Francia ha un’economia a pezzi, non sa che fare dei suoi immigrati e ha una classe politica inetta>. Così scrive il quotidiano francese Le Monde, commentando il saggio Le Suicide français di un certo Donald Morrison. Ma, prosegue il giornale <un suicidio è probabile quanto una cena all’Eliseo fra Hollande e Trierweiler>. Al contrario <il Paese che è pronto a darsi la morte, piuttosto, sono gli Usa. Che hanno voltato le spalle, misteriosamente, a Obama>. Segue un elenco di problemi: <Infrastrutture vetuste, l’Internet più lento e caro del mondo sviluppato, obesità, armi da fuoco, razzismo: in confronto, la Francia gode di una ottima salute>.

 

Il rapporto Censis 2014
Penserete: uffa, un’altra barba di articolo… Al contrario: questo rapporto, se proseguirete nella lettura, è occasione di divertimento, ma anche di qualche considerazione politica… Spiego intanto che cosa è il “Rapporto Censis”: quest’anno ricorre il 50° anniversario della fondazione del Censis, nel 1964. Due anni dopo, il Centro studi investimenti sociali, fondato da Giuseppe De Rita, presentò il suo primo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. E così, dopo cinquant’anni eccoci al 48° Rapporto e alle sue Considerazioni generali, scritte come sempre, di proprio pugno, da De Rita. Sono stato colpito dai titoli dai giornali (cartacei e on line) che lo hanno commentato: capirete il perché.

 

<Italia stremata e ripiegata a su se stessa>, <Società informe e sghemba anche nei pensieri>, <Giare talenti e selfie: così il motore dell’Italia si è ingrippato>, <Politica bocciata: gira a vuoto, riforme fallite e incoerenti>, <Italia con ceto medio corroso, rischio di banlieu parigina>, <Italia spaventata e ripiegata su se stessa, cinica, egoista>, <Una società egoista che ci rende mediocri>, <Paura povertà>, <Gioventù umiliata>, <Il paese umilia i giovani, la politica gira a vuoto>

Insomma, quest’anno il Rapporto Censis contiene una vera sfuriata contro la politica. Ma quale politica? Quella di Renzi, naturalmente. Giuseppe De Rita, 84 anni, è uno dei pachidermi più insigni del generone statale burocratico romano, che vive di soldi pubblici, (è stato anche per dieci anni presidente dell’inutilissimo Cnel), ma che nessuno smuove. De Rita naturalmente ce l’ha a morte con Renzi il Rottamatore. Ma è interessante a questo proposito un altro pezzo apparso sul Fatto Quotidiano: <Rapporto Censis, giovani disoccupati e umiliati. Ma il presidente sceglie il figlio come successore. Al vertice dell’istituto da lui fondato nel 1964, ha annunciato la nomina del secondogenito Giorgio. Eppure il Censis, nel corso degli anni, ha spesso parlato di raccomandazioni in chiave negativa. Non vale però per il presidente senior: “Mio figlio? Ha il curriculum adeguato”>. Abbiamo capito, no?

Censis: ma che stai a dì?
(Christian Raimo e Jumpinshark, www.minimaetmoralia.it) Qualcuno ha letto le Considerazioni generali che introducono il 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese presentato dal Censis? Noi sì, per esempio. Sono quelle dieci paginette che cominciano con un periodo molto depresso e deprimente: <Dopo anni di trepida attesa, la ripresa non è arrivata e non è più data come imminente; e quasi si ha il pudore, forse la stanchezza, di continuare a usare un termine ormai consunto nel racconto collettivo>. E subito dopo: <L’Italia si adagia, con un pizzico di fatalismo, a introiettare un galleggiamento su antiche mediocrità>. Ci domandiamo come si possa, in apertura di un testo così impegnativo scrivere le due frasi riportate. Tanto pretenziose quanto goffe, da tema scolastico copiato da qualche manuale per temi scolastici. Parole che sembrano un orrore premeditato, messe lì apposta per richiamare l’eterno urlo morettiano: <Ma come parla?>

Qualcuno, che è andato avanti nella lettura, per esempio come noi, ha provato a farsi strada tra un <cespuglio di vitalità> e una società <sempre più informe, sghemba addirittura nei suoi pensieri… >. Poi si arriva al punto in cui l’analisi comincia a diventare una specie di profezia religiosa. <Si tratta solo di richiamare due semplici verità: la prima, banale e kirkegaardiana insieme, è che non è pensabile una ripresa dello sviluppo senza un’adeguata riflessione della base reale su cui operiamo>. C’è da ri-manere basiti (notare il trattino), oppure ci si può chiedere e ri-chiedere perché il disgraziato “richiamare” non ri-meriti il trattino kirkegaardiano. Ri-troviamo fiducia qualche riga dopo, quando il testo ha finalmente scovato le giuste metafore per rispondere alla domanda: che tipo di società sia quella in cui si stanno compiendo le importanti trasformazione di questi anni? <Non c’è bisogno di inventarsi nuove metafore interpretative per ribadire una realtà da tempo chiara: siamo una società molto differenziata, molecolare, ad alta soggettività, piena di aspettative e di obiettivi diversi. Altri l’hanno chiamata “società liquida”>. La definizione può utilmente essere presa a riferimento di base, specialmente da chi inclina spesso alle metafore idrauliche: si pensi a quanto anche questo Rapporto ha navigato su fenomeni quali il sommerso, il galleggiamento, la mucillagine.

Stupidi e presuntuosi noi, che non abbiamo compreso subito il termine tecnico galleggiamento? Come la mucillagine. E allora le alghe? E il pattìno? E perché discriminare il pedalò? Zygmunt Bauman ha mai parlato per caso della “funzione bagnino” in qualche suo saggio? Tutto questo liquame ci sommerge. Stiamo per affogare quando ecco che incontriamo di nuovo l’amichevole cespuglio, a cui possiamo aggrapparci. Questa volta ci sono pure i fili d’erba: <Al di là delle metafore, siamo comunque una società indistinta e sfuggente: indistinta, perché non è più descrivibile con forme e figure delineate e significative (si pensi al progressivo successo del termine “gente” e alla propensione a parlare di “gentismo”); e sfuggente, perché tutto vaga senza radicamenti, per cui è impensabile un ritorno ai fili d’erba e ai cespugli di sviluppo, fenomeni tipicamente terragni, che hanno cioè bisogno di terra per sorgere e crescere>. E meno male, che il paragrafo iniziava con <al di là delle metafore> … Ma almeno abbiamo capito che la colpa della crisi è tutta nostra, in quanto ci siamo allontanati dai <fondamenti tipicamente terragni>.

Per espiare cerchiamo di comprendere la logica interna del discorso – ed ecco che arriva l’illuminazione: siamo all’oroscopo sociologico. Abbiamo fatto i segni d’acqua e di terra, tra un po’ seguiranno quelli d’aria e di fuoco. Intanto ci viene svelato l’ultimo arcano agricolo: <La denominazione di questi mondi in-comunicanti (notare il trattino) è semanticamente avventurosa (circuiti, strati, vasi, tubi, bigonce), ma in via di consapevole approssimazione si può avanzare il termine “giare”, a significare contenitori a ricca potenzialità interna, ma con grandi difficoltà a stabilire significativi rapporti esterni. E facendo un più arrischiato passo in avanti, si può definire allora l’attuale realtà italiana come una “Società delle sette giare”, dove le dinamiche più significative avvengono all’interno del loro parallelo sobbollire, senza processi esterni di scambio e di dialettica>. Il rapporto del Censis definisce appunto l’Italia il Paese delle Sette Giare (lo sottolinea anche il comunicato stampa). Ci crediamo. Dev’essere proprio così! Perché non c’eravamo arrivati prima? Finalmente una definizione utile! Abbiamo sudato camicie e fatto il giro delle sette chiese nella lettura, ma ora siamo al settimo cielo!

 

Ma passa qualche secondo, e ci guardiamo di nuovo perplessi. Ci chiediamo: sarà mica un riferimento a una vecchia fiaba raccontata da Calvino? O forse, in perfetto tempismo, una variante di un gioco di carte natalizio, tipo spurchiafiletto? E soprattutto: se si rompe una giara, gli anni di sfortuna sono sempre sette? Ma, basta ironia: il Censis istruisce e ammonisce severo. E noi continuiamo pagina dopo pagina, avvinti dal tono da sciagura con cui si ribadisce che l’Italia è al tracollo: una, due, dieci quindici volte. Stiamo veramente male, ci viene detto. Tanto che in alcuni passaggi ci sembra di ascoltare una specie di confessione da sabato notte del nostro amico De Rita all’apice della depressione: <Al destino di essere un mondo che vive di se stesso non sfugge neppure il mondo del quotidiano. È enorme, articolato, liquido, molecolare, di moltitudine, ma non riesce ad avere dinamica: né in avanti, attraverso nuove stagioni di iniziativa e di impegno; né all’indietro, attraverso l’accettazione di un downgrading della composizione sociale>.

A un tratto pensiamo che forse non siamo noi i lettori a cui è destinato questo accollo – no, scusate, rapporto – ma le generazioni future, umane e non. Questo testo è come quei documenti spediti subito prima di morire, dall’ultimo resistente nella navicella spaziale, con la speranza che qualche popolazione aliena nelle estreme galassie lo legga e non commetta gli stessi errori. Oppure è per i nostri bis-bis-nipoti che fra cento anni vorranno comprendere qualcosa dell’Italia… Del perché all’inizio del nuovo millennio questo Paese andò in malora, e cercheranno nei vecchi rapporti Censis qualche chiave interpretativa… A questi sociologi futuri basterà sbirciare due righe scelte a caso, tra vocaboli desueti (“è un giuoco tutt’interno”), metafore che s’incartano, figure retoriche sballate e profezie apocalittiche condite di termini pseudo-scientifici… Ma se, per rigore o per tigna, vorranno arrivare all’ultima pagina, finiranno come noi, stremati dalla lettura, e forse decideranno che per capirci qualcosa è meglio consultare qualche fondo del caffè o qualche viscera di pollo. E riconosceranno l’amara verità. Altro che mediocre kierkergaardiano galleggiamento: si capiva da come scrivevano, che erano un popolo condannato all’estinzione.

Citazione
La maggioranza di coloro che si dedicano alla politica ricevono questa denominazione non correttamente: infatti essi non sono politici secondo verità, perché l’uomo politico è colui che sceglie le azioni belle per se stesse, mentre la maggior parte sceglie questo genere di vita in vista delle ricchezze e del desiderio di potere (Aristotele, 2300 anni fa)

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