In Ucraina vince il fronte dei partiti europeisti e liberali

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In Ucraina, Tunisia e Brasile scelte di campo decisive.

In Ucraina il nuovo blocco elettorale del presidente Petro Poroshenko ha ottenuto il 21% dei voti, testa a testa con il Fronte Popolare dell’attuale premier ad interim Arseny Yatsenyuk. In entrambi i casi si tratta di una conferma. Il presidente, eletto lo scorso maggio, ha ora la sua ambita base parlamentare che può legittimarlo anche nella Rada (il parlamento ucraino) e votare a favore delle sue politiche. Consacrazione alle urne anche per Arseny Yatsenyuk, che è premier non eletto da otto mesi e ora, alla prova del voto, ha dimostrato di poter conquistare la maggioranza relativa. Le sorprese arrivano dopo i primi due partiti: al terzo posto si è infatti piazzato il partito liberale Samopomich, con l’11%. Guidato da Andriy Sadovyi, il sindaco di Lviv, nell’estremo occidente ucraino, ha un programma fortemente europeista. L’altra sorpresa (relativa) è invece il collasso dell’ex formazione di maggioranza, il Partito delle Regioni: coalizzato con altre formazioni pro-russe nel Blocco delle Opposizioni, è finito quarto, con meno del 10% dei voti. E subito alle sue spalle, a tallonarlo, si piazza il Partito Radicale, con il 7,5% dei voti, anch’esso fortemente occidentalista, favorevole all’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Ue.

I nazionalisti, sia quelli di Svoboda che quelli di Pravy Sektor, sono fuori dal parlamento, non avendo passato la soglia di sbarramento del 5%. Dormano sonni tranquilli coloro che, in Occidente, temevano una deriva “nazista” della rivoluzione del Maidan. Il risultato veramente storico è la sconfitta del Partito Comunista che, per la prima volta dal 1991 (dall’anno dell’indipendenza dell’Ucraina), non riesce ad entrare nella Rada. Paradossalmente, la guerra ha riunificato il Paese e lo ha spinto su posizioni decisamente pro-europee, come mai in passato.

In Tunisia la scelta di sistema non era fra liberalismo e post-comunismo (e fra Ue e Russia), ma fra laicità e islamismo. Hanno vinto i laici, come confermano i dati sinora pervenuti nel lentissimo conteggio dei voti. Nidaa Tounes, il partito secolare guidato da Béji Caid Essebsi, avrebbe preso (dati ancora provvisori) il 36% dei voti, contro il 26% del movimento islamico Ennahda guidato da Rachel Ghannouchi, vincitore delle prime libere elezioni dopo la Primavera Araba. Con molto fair play, degno di una democrazia consolidata, Ghannouchi ha accettato la sconfitta e si è complimentato con Essebsi, pur non conoscendo ancora i dati definitivi del conteggio dei voti. Nidaa Tounes, “appello per la Tunisia”, è un partito costituito da ex membri del Raggruppamento Costituzional-Democratico dell’ex dittatore Ben Alì. Per questo la sua vittoria potrebbe essere intesa come un trionfo della reazione, dopo la rivoluzione del gennaio 2011, la prima delle Primavere Arabe. Ma Nidaa Tounes include, fra i suoi ranghi, anche sinistra laica, liberal-progressisti e nazionalisti.

Nasce anche da quelle frange che hanno fatto la rivoluzione, ma si sono opposte al prevalere del partito islamista, temendo una deriva totalitaria e religiosa. Il caso della Tunisia non è affatto unico nel suo genere. Basta voltare lo sguardo un po’ più a Est, oltre al caos in Libia, per trovare l’Egitto governato da Al Sisi, laico e militare. Anche il generale egiziano è arrivato al potere dopo un anno di esasperazione e una rivolta di piazza provocate dal malgoverno dei Fratelli Musulmani di Morsi. In Egitto il ricambio al vertice è stato caotico e violento. In Tunisia no. Perché i vertici tunisini, anche quelli islamici di Ennahda, hanno evidentemente imparato la lezione del vicino. Non hanno scritto una Costituzione prendendosi l’esclusiva ed emarginando le forze di opposizione. Non hanno scritto delle leggi a misura della sharia. Hanno accettato la sfida democratica, l’hanno persa e hanno accettato l’esito. Con questo non si vuol negare che in Tunisia ci sia stato e ci sia tuttora il terrore di violenze commesse nel nome della jihad. Fra sinagoghe bruciate, intimidazioni ai cristiani e omicidi di oppositori (quello di Chokri Belaid, assassinato il 6 febbraio 2013), anche la Tunisia ha vissuto i suoi tempi bui. Ma le elezioni parlamentari di questo fine settimana lanciano un segnale di speranza: un’altra Primavera è possibile. Non è automatico che alle insurrezioni arabe del 2011 segua, necessariamente un inverno islamico o il caos di una guerra civile. La Tunisia dimostra che dopo la cacciata del dittatore, una democrazia stabile è possibile.

Il Brasile rappresenta una realtà molto differente dalle prime due. Il grande Paese emergente non è uscito da una rivoluzione, come la Primavera della Tunisia e il Maidan dell’Ucraina. È già una democrazia consolidata dal 1985. Ma ha comunque vissuto una piccola civile, combattuta coi voti e non con le pallottole. Si è infatti trattato del voto più conteso e sofferto di sempre, fin dalle prime libere elezioni. E potrebbe sortire nuovi disordini, più che un nuovo ordine. Ad affrontarsi erano la presidente uscente Dilma Rousseff, del Partito dei Lavoratori (estrema sinistra) contro lo sfidante Aecio Neves del Psdb (socialdemocratico). Non c’era alcun candidato di destra. Ma comunque i modelli proposti dai due candidati erano opposti. La Rousseff ribadisce i mantra della sinistra massimalista: redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri, lotta alla povertà, espansione del settore pubblico, protezionismo commerciale.

Neves, benché non fosse di destra, mirava comunque a una liberalizzazione maggiore, per favorire una potenza economica emergente quale è il Brasile. Molti dati di realtà contraddicevano i programmi della Rousseff: il Paese è in recessione da due trimestri consecutivi, sono esplosi, nel corso degli anni, molti scandali di corruzione, culminati nel grande “magna magna” dei Mondiali, i più costosi di sempre e i peggio organizzati del secolo. Ma chi ha votato la Rousseff ha dato importanza ad altri aspetti. A parte gli intellettuali, con i loro sogni pauperisti, la base di voto del Partito dei Lavoratori è il Nord Est, con la sua popolazione etnicamente più meticcia e socialmente più povera, dove si concentrano i beneficiari delle politiche assistenziali dell’ex presidente Lula e della sua erede diretta. Nel Sud, etnicamente più europeo ed economicamente più dinamico, il voto è andato soprattutto a Neves. Alla fine la presidente uscente ha vinto per una manciata di voti, con il 51,6%, con 53 milioni di consensi contro poco più di 50 accaparrati dal suo rivale. Ora si trova a governare un Paese diviso.

E conoscendo la tendenza del Partito dei Lavoratori, oltre che della stessa Rousseff  (che ha esordito come guerrigliera marxista contro la dittatura dei militari), difficilmente si può pensare a una politica di conciliazione nazionale. Il rischio che corre il Brasile è quello di una situazione da Venezuela, dove un pezzo di società, nel nome dell’emancipazione dalla povertà, sta vivendo alle spalle dell’altro. Finché la guerra civile fredda non diventa calda.

 

 

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