Brasile: tra Dilma Rousseff e Marina Silva un referendum su dove andrà l’America latina

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Oggi in Brasile si definisce la prosecuzione o l’inversione di tendenza dei processi politici e sociali che nel XXI secolo hanno, in pace e democrazia, significativamente ridotto povertà e ingiustizia in America latina, integrato il Continente e spuntato -pur senza avere la forza di smantellare- le peggiori crudeltà imposte dai regimi neoliberali instaurati dalle e dopo le dittature fondomonetariste degli anni ’70. È infatti evidente che, nonostante il consenso del quale continuano a godere la maggior parte dei governi progressisti della regione, un governo di segno mercatista nella potenza regionale brasiliana metterebbe tutto il processo regionale a rischio. Lo hanno dimostrato i mercati stessi, crescendo o crollando in queste settimane in ragione delle fortune nei sondaggi della candidata Marina Silva, vista come quella con più possibilità di sloggiare dopo 12 anni il Partito dei lavoratori (PT), che ripresenta la presidente uscente Dilma Rousseff, a sua volta succeduta a due mandati del leader storico Lula, dal Palazzo di Planalto.

Le modalità della campagna elettorale sono interessanti, ricche di drammatici colpi di scena e spiegano molte cose. Le destre, disperate per il sostanziale fallimento delle proteste dei mesi scorsi, che per la stampa internazionale dovevano portare alla caduta della ‘dittatura’ di Dilma Rousseff (qualunque governo non ortodossamente neoliberale e che goda del consenso di settori popolari ma non della grande finanza è ormai rappresentato come un ‘regime autoritario’), e per il successo d’immagine dei mondiali di calcio, avevano puntato su un candidato conservatore di stampo classico ma senza apparire reazionario come Aécio Neves. La candidatura di Aécio non era però mai apparsa in grado di mettere in difficoltà la macchina petista e scalfire l’appoggio di quello che resta il più grande sindacato di sinistra al mondo, la CUT, con i suoi 25 milioni di iscritti, sempre spalla a spalla col partito nel rilevarne le luci e digerirne le ombre. Dilma sembrava tranquilla di un buon vantaggio risalendo in tutti i sondaggi al di là della macchina demonizzatrice dei media.

Il colpo di scena era così stato la morte in un incidente aereo di Eduardo Campos, candidato rinnovatore della politica ma non del modello economico, un terzo incomodo che aveva la possibilità di raccogliere molti voti ma non impensierire Dilma, aveva finalmente permesso al personaggio Marina Silva di tornare in scena, dopo che fino a quel momento questa (che nel 2010 aveva ottenuto un exploit di voti) aveva conquistato solo uno strapuntino come vice di Campos.

Come quattro anni fa Marina Silva aveva il fascino di ex-militante petista partita dal nulla, arrivata a laurearsi e ad essere ministro di Lula. Una volta investita della candidatura, beneficiando di un iniziale boom di consensi favorito dal plauso dei media che vedevano finalmente sorgere in lei una speranza anti-PT, Marina ha dovuto in queste settimane continuamente riposizionarsi per agenda politica. Col passar dei giorni ha finito tristemente per coincidere con quelle destre che potevano garantirle forza, voti e finanziamento già che lo sfondamento a sinistra è apparso ben presto limitato. Ha dovuto così abiurare completamente il suo passato ambientalismo. Prima che il gallo cantasse ha negato di essere mai stata contro le grandi dighe, contro i transgenici alla base dello sviluppo agroindustriale, contro lo sfruttamento degli idrocarburi in alto mare. Inoltre il peso del fondamentalismo evangelico, confessione della quale è esponente, la fa apparire come una regressione oggettiva per tutte le questioni ‘eticamente sensibili’, dove pure il PT, forte dell’appoggio cattolico, si è sempre mosso con prudenza. Marina porta così con sé troppe contraddizioni, esplicitate macroscopicamente in un programma che prevede una dogmatica indipendenza del Banco Centrale, da restituire all’ortodossia monetarista. Ciò è considerato fondamentale per i mercati e le grandi banche private, che non le hanno lesinato appoggi e consigli, ma pericolosissimo per i programmi sociali che hanno permesso negli ultimi 12 anni a decine di milioni di brasiliani di uscire dall’inedia. Si realizza così la profezia di Lula, che al ritenersi Eduardo Campos di poter essere un’alternativa progressista al PT, aveva risposto che solo avrebbe potuto contrastare il Partito dei lavoratori (un po’ come una terza via blairiana) occupando lo spazio politico della destra. È quello che è toccato all’illusione di Marina, che oggi riceverà milioni di consensi ma, ove mai dovesse trionfare, sarebbe già legata mani e piedi alle forze che in questi anni si sono opposte ai processi democratici e integrazionisti dell’intero continente.

Non vale la pena attribuire alla stessa morte misteriosa di Campos l’avvento nella Silva di una possibile ‘rivoluzione colorata’. Donna, nera, bella faccia, bella storia di dignità quella di Marina, capace di farsi appoggiare da esponenti dello star system come Caetano Veloso e perfino di Gilberto Gil, anch’egli già ministro di Lula. Ma l’integrazione latinoamericana, individuato nel Brasile l’anello debole dei Brics (Cina, India e Russia sono sostanzialmente irriducibili, il Sud Africa è meno rilevante), sarebbe in campo internazionale sostituita con la dichiarata riapertura del progetto di George Bush dell’ALCA, sconfitto nel 2005 dalla linearità di Lula, Kirchner e Chávez e dalla forza dei movimenti sociali. Il primo passo, già esplicitato dalla Silva, è il riallineamento a quell’Alleanza del Pacifico fin qui costruita proprio contro la potenza regionale brasiliana e i processi d’integrazione, a partire dal Mercosur, con un ritorno ad una relazione di sudditanza rispetto agli USA.

Alcune di queste posizioni sono state all’origine dell’amore impetuoso per Marina da parte dei media e dei mercati (due facce della stessa medaglia), che però continuano interessatamente a descriverla come candidata progressista e ambientalista. Inoltre hanno continuato a crocifiggere sistematicamente i governi del PT come se questi avessero introdotto la corruzione, l’inefficienza, l’insicurezza, il narco in Brasile. Tutto giusto; il gigante brasiliano, che è molto cambiato in positivo, ancora di più può e deve ancora cambiare. Sono temi che incontrano il favore di spezzoni importanti delle classi medie, che vorrebbero giustamente di più e meglio, come un po’ ovunque nel mondo. Ma proprio alcune di queste posizioni, in particolare il pagare il dazio ai mercati con l’insistenza sull’indipendenza della banca centrale, a detrimento dei programmi sociali, avrebbero limitato l’iniziale esplosione nei sondaggi di Marina, non facendola sfondare nell’elettorato più popolare del PT. Ad oggi secondo alcuni sondaggi, rischierebbe addirittura il secondo posto in favore di Aécio. Si vedrà.

Il ricordo dell’indigenza di massa sotto Fernando Henrique Cardoso e lo smantellamento delle politiche sociali, avrebbero infine indotto le classi medie-basse a non cambiare, anche se la battaglia probabilmente si definirà al ballottaggio. Per qualcuno è ancora la speranza di cambiamento, forse più lento dell’anelato, per molti è il male minore. Il PT in questi anni d’impetuosa crescita ha commesso infiniti errori, a partire dal non riuscire a costruire un sistema educativo primario pubblico moderno e di grande qualità, che è forse oggi la principale necessità del paese. Mille volte, soprattutto a causa del dover sempre governare in coalizione, non è riuscito a realizzare quanto si era prefissato e quanto era necessario, dall’abortire di una riforma agraria di vasta portata a un modello economico tuttora largamente dipendente dall’agro-export. Appare però chiaro che la disputa oggi resta tra due modelli di paese e di continente, uno neoliberale e dipendente, che candida Marina e Aécio, l’altro più o meno socialdemocratico alla titanica ricerca di un progresso sociale rispetto all’esistente, coniugando la non belligeranza con i mercati e il rafforzamento della società civile. Per l’ennesima volta in America latina oggi si vota un referendum tra due mondi contrapposti e, con tutte le fallacie della difficoltà enorme di trasformare un gigante come quello brasiliano, Lula e Dilma, e la CUT e l’MST e decine di altri movimenti sociali stanno da una parte e i neoliberali dall’altra.

 

di Gennaro Carotenuto

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