di Raffaello Morelli
Merita una ulteriore riflessione da parte liberale ( dopo le tante cose dette tempestivamente negli anni) l’intenso dibattito politico sulla questione dei natanti, molto numerosi e molto affollati, che tentano di arrivare in Italia dalle coste africane ed asiatiche.
In Italia i liberali furono i primi, a metà anni ’80 con Malagodi, a parlare di società multietnica e multiculturale connessa con i problemi di libertà. L’approccio non era né deve essere ideologico, cioè per stabilire se sia migliore o no un modello di società autoctona. Deve essere un approccio empirico legato all’esperienza storica: alla lunga, chiudersi in sé, porta una nazione e un gruppo sociale all’inaridirsi e a scomparire. Visto che è fallita anche la Grande Muraglia cinese nonostante le enormi dimensioni territoriali, dire “no alla società multietnica” o esprime una scelta razzista ( estranea al liberalismo) oppure è un ingenuo tentativo di non vedere l’Italia quale è, così da non affrontarne i reali problemi (il che non corrisponde alla pratica liberale). La vera questione della convivenza, in un’ottica liberale, è come restare aperti in una società multietnica. Che oggi c’è fisiologicamente.
Partiamo da una riflessione. I concetti di società aperta e di libera circolazione si fondano sul riconoscimento delle diversità nei modi di essere e sulla adozione di regole dettagliate per farli interagire. Quindi sono concetti ben diversi, in pratica l’opposto, dell’ecumenismo mondialista a sfondo religioso, che invece della diversità ipotizza l’identità e che con la frase cittadini del mondo punta ad annullare ogni differenza di tempi e di luoghi e ad unificare tutte le norme (in chiave criptodirigista). Nelle società aperte e nella libera circolazione, una diversità importante sono gli Stati e le rispettive condizioni sociali, economiche e culturali. Solo non saltando la realtà degli Stati, si possono creare le condizioni aperte. La costruzione dell’Europa, lunga, difficile, progressiva e sempre in corso, ne è un esempio significativo. Appartiene invece alla logica mondialista teorizzare che ogni persona, in quanto essere umano, ha diritto, a prescindere dalle condizioni effettive e dalle leggi variamente in vigore, di andare nel paese che crede, quando e come vuole. Qui la percezione delle differenze rispetto all’altro da sé spariscono e si tramuta la concezione di un individuo convivente con quella dell’individuo che pensa solo al proprio egoismo. Eppure si finge che non sia così.
In tale quadro, la risposta liberale al come restare aperti è in generale quella di mettere il cittadino individuo al centro di ogni iniziativa e normativa pubblica. Ma, per coerenza, questo già comporta rilevanti distinzioni a seconda dell’ambito di applicazione. Nello stesso stato ? In più stati dello stesso livello politico e socio economico ? Di livelli comparabili ? Di livelli molto diversi ? Nello stato di origine, il cittadino soffre sotto il profilo politico e delle libertà civili oppure sotto il profilo socio economico se non addirittura sotto quello delle condizioni di sopravvivenza? Per i fautori della società aperta e della libera circolazione, conoscere bene le situazioni è decisivo per individuare una corretta risposta politica coerente ai principi. Per i mondialisti, l’ambito non fa pratica differenza.
I fautori delle società aperte e della libera circolazione si adoperano di continuo perché il diritto internazionale e i vari diritti statali rendano progressivamente possibile una maggiore apertura. Che è stato il modo più efficace per battere il colonialismo e uno sterile orgoglio occidentale. Ma non confondono questo processo in marcia continua con il prescindere dai dati di fatto, atteggiamento che giudicano molto pericoloso. Ad esempio, è pericoloso l’evocare i (presunti) diritti umanitari per invogliare un afflusso indiscriminato nei luoghi del pianeta che appaiono più desiderabili ed accattivanti rispetto al paese di origine. Oltre certi livelli, questo afflusso porterebbe ad un impoverimento indiscriminato di tutti. Dunque la ferma applicazione del diritto ai vari livelli – non per innalzare paratie stagne che contravvengano all’apertura, viceversa per rendere più ampie e scorrevoli le arterie di passaggio – diviene una necessità assoluta. Ciò non significa insensibilità umanitaria bensì maggiore sensibilità alle necessità e alle ragioni dei cittadini circa il loro stato reale.
Da qui, l’essere aperti all’interno di uno stato o di più stati dello stesso livello politico ed economico od anche solo comparabili, deve seguire certe regole, a cominciare dalla libertà, dalla dignità umana, dalla capacità di integrarsi nel quadro e non contro tradizioni e costumi del paese in cui si vive. Mentre se gli stati sono a livelli molto diversi, l’essere aperti deve rispondere ad altre regole. In questo caso diviene centrale applicare i vari diritti del diritto internazionale nelle sue varie forme. Per gli ecumenici mondialisti, invece, tutto si risolve dicendo “è inumano respingere i disperati”. Ma questa è una pulsione dell’animo, oppure della fede, commendevole, che attiene al privato, e che non può essere un argomento per una struttura sociale. Sarebbe come se una società occidentale assumesse l’elemosina quale cardine delle moderne politiche pubbliche di assistenza.
Una normale politica coerente con l’obiettivo apertura, intanto effettua delle azioni di concerto con i paesi di origine e quelli a noi dirimpettai (senza lesinare specifici investimenti, che vanno considerato appunto investimenti) perché sviluppino condizioni di vita migliori così da rendere meno attraente il nostro paese. Poi stipula intese perché gli stessi paesi procedano a vere e proprie azioni di contenimento degli afflussi verso i nostri lidi europei. E infine, quando si tratta di barconi in mare, deve con fermezza applicare le norme internazionali e italiane. E’ indispensabile distinguere se il barcone si trova in acque internazionali, di un altro paese o italiane. Solo questi dati di fatto danno il modo di stabilire quale norma applicare e di capire quale diritto si deve rispettare e, se il diritto è quello italiano, a chi si è di fronte , richiedente asilo politico, rifugiato, profugo, emigrante, fattispecie diverse che devono essere diversamente trattate.
Si può capire che tutta questa casistica appaia fuori contesto rispetto alla tensione, spesso al dramma, delle persone che si trovano sui barconi. Ma prescindervi è un’illusione simile a quella del medico pietoso che fa la piaga cancerosa. Si devono tenere comportamenti razionali perché sono in gioco le vite di chi è sui barconi ma anche, in un diverso lasso di tempo, di chi è a casa. La questione di fondo è che esiste un limite per la densità abitativa sul territorio e che quindi non si possono accogliere tutti nello stesso posto. Tra Europa ed Africa è indispensabile, nelle diverse fasi storiche, sforzarsi di mantenere un equilibrio monitorizzato nella pressione demografica. E allora è ragionevole che, per i barconi intercettati nelle acque internazionali, si scelga il respingimento, consentito dalle leggi. Lo fa l’Europa, l’hanno fatto i governi Prodi e D’Alema alla fine anni ’90, l’hanno fatto e lo fanno i governi Prodi e Berlusconi alla fine anni ’10 del 2000. Un’azione di contrasto e di dissuasione dei clandestini è prevista nei documenti dell’Europa. Per questo è stata istituita nell’ottobre 2004 l’Agenzia europea per la cooperazione operativa alle frontiere esterne dell’Unione, il Frontex. Da allora l’Unione ha respinto, pure attraverso missioni specifiche, oltre centocinquantamila immigrati, soprattutto per terra, e il flusso di immigrati bloccati, respinti o rimpatriati è crescente negli ultimi due anni.
Di per sé, questo non significa che non vengano rispettati il diritto di asilo o di rifugio. Che hanno ben precise normative internazionali (essenzialmente la convenzione di Ginevra del 1951 e poi le successive) del tutto lontane dalla logica dell’avere il diritto ecumenico-mondialista di spostarsi dove, quando e come si vuole. Normative che in ogni caso si applicano ai rifugiati che sono sul territorio di quel determinato paese e non sui territori internazionali. La dicono lunga le polemiche, tipicamente illiberali, innescate dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati di Ginevra (UNHCR) il quale parla in nome della Convenzione del 1951 asserendo che i respingimenti la violano , quando non può non sapere che i suoi art. 30, 31 e 32 stabiliscono esattamente il contrario di quanto lui dice. Al punto che solo dopo l’accoglimento in Italia del clandestino si innesca passo passo per lui uno status per cui nel tempo diviene praticamente arduo il riportarlo in patria (per questo è sbagliato opporsi, in linea teorica, al prolungamento della permanenza nei centri raccolta, che serve a capire chi abbiamo di fronte; naturalmente occorre allora aumentare in corrispondenza la capienza dei centri).
Facendo come l’Alto commissario, si gioca come fanno i giocolieri delle tre carte. Siccome per i rifugiati già riconosciuti dalle organizzazioni internazionali le norme si applicano ovunque, allora si finge che le persone sui barconi siano dei rifugiati internazionalmente già riconosciuti. E questo non è vero, è una finzione burocratico mondialista per aggirare le norme. Non esiste in nessun posto un foglio che individui le centinaia di persone dei barconi. E neppure uno che elenchi coloro che hanno chiesto asilo politico. Tra l’altro, i dati già confermano che, su 100 arrivati in Italia, chiedono asilo un pò meno dei 3/4 e lo ottengono in meno della metà, cioè intorno ad un terzo. Gli altri 65 non hanno titolo per entrare legalmente in Italia. E al di là delle quote fissate annualmente, è opportuno non c’entrino proprio, non ce lo possiamo permettere.
Ecco una riprova dell’importanza della attività di contenimento e di respingimento, a cominciare dai paesi di origine. Ovviamente anche questa attività può esser svolta bene o male, ma questo è un altro discorso e richiederebbe polemiche di natura diversa. Oltretutto, si deve fare i conti con la circostanza che la capacità di attrazione verso il nostro paese e l’Europa dipende sì soprattutto dalla spinta migratoria ma viene acuita dai precisi interessi di chi gravita intorno a questo mondo di disperati. A cominciare dai veri e propri schiavisti che sono i traghettatori a cifre esose.
C’è infine da considerare che una azione di contrasto ai clandestini più disattenta se non assente, innesca un altro e differente problema interno al paese, quello della sicurezza. Non certo perché i non italiani siano geneticamente più predisposti al reato ma perché le loro spesso peggiori (anzi pessime) condizioni socioeconomiche e culturali dispongono con più probabilità al non rispetto della legge e inducono insicurezza ambientale. Anche sotto questo profilo, è importante far vedere che in Italia vige il rispetto delle leggi, di per sé un modo di scoraggiare l’immigrazione irregolare. Naturalmente , la stessa logica deve essere seguita anche all’interno, dando più rilievo a politiche di integrazione coerenti. Vale a dire fondate sul pluralismo, sul rispetto della cultura italiana, politiche che restino lontane dalla ghettizzazione e dal multiculturalismo degli immigrati, cose che vengono colpevolmente accelerate da politiche ispirate alle identità etnico-nazionalistiche a sfondo religioso in cui si chiama rappresentanza il suo rovescio, e cioè il pubblico riconoscere a presunti gerarchi religiosi una leadership loro mai affidata da nessuna delle persone interessate.
Non promuovere interventi di tal genere e adottare argomenti tipici dell’ecumenismo mondialista per criticare la politica del governo, in modo aprioristico e senza legami con la realtà, è oltretutto un autogol. Presso l’italiano medio – che è provato non è pregiudizialmente contrario a questa politica – fa ritenere che la concreta linea raziocinante sia la linea della destra. Neppure questo è vero, perché la destra, quella della Lega e quella sociale oltre il corpo profondo del Popolo della Libertà, hanno valori d’altro tipo spesso contigui alla società chiusa se non al razzismo (vedi il no alla società multietnica e, per la convivenza in Italia, la questione ronde ed i suoi ambigui rapporti con lo Stato, il dare ai medici compiti di denuncia estranei alla loro missione e l’ingiustificata introduzione dell’aggravante della clandestinità ).
Credo si possa concludere questa riflessione, dicendo che anche nel campo dei barconi l’attenzione ai problemi della libertà e delle interrelazioni individuali è il cuore di politiche efficaci nel promuovere davvero società più aperte.