E’ possibile condurre un ragionamento spassionato, “sine ira et studio”, sul Segretario del PD Matteo Renzi e sull’iniziativa da lui assunta in materia di riforma della legge elettorale? Provo ad indicare tre questioni sulle quali sarebbe opportuno che l’attenzione dei cittadini si soffermasse.
1) Della politica ridotta ad abilità tattica.
Il vigente articolo 83 del Testo Unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati richiede per l’accesso alla rappresentanza: per le liste collegate in una coalizione, il requisito di aver conseguito sul piano nazionale almeno il due per cento dei voti validi espressi; per le liste non collegate (ossia per quelle che si presentano autonomamente, fuori da coalizioni costituite), il requisito di aver conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi. L’accordo di riforma elettorale, comunicato dal Segretario del PD Renzi durante la Direzione del Partito tenutasi lunedì 20 gennaio, eleva le predette soglie, rispettivamente: al cinque per cento per le liste collegate in una coalizione; all’otto per cento per le liste non collegate.
Com’è possibile che una proposta di modifica di questa entità venga accettata (quindi votata nei due Rami del Parlamento) dagli aderenti a partiti che sanno in partenza di non poter raggiungere le soglie di sbarramento indicate? Intendo partititi sia di centrodestra, sia di centrosinistra. L’unico partito indifferente è il Movimento Cinque Stelle, fresco come un quarto di pollo dall’alto della percentuale del 25,56 per cento conseguita nelle elezioni per la Camera del 24 febbraio 2013.
Ecco una prova dell’indubbia abilità tattica di Renzi, il quale, dopo aver seminato il panico, anche fra i partiti che sostengono il Governo Letta, facendo trapelare la notizia di voler andare verso un modello spagnolo debitamente corretto dal duo D’Alimonte – Verdini, ha poi improvvisamente tirato fuori, come coniglio dal cappello, un secondo turno eventuale per assegnare il premio di maggioranza. In questo secondo turno — ecco la novità — i partiti coalizzati avrebbero una quota parte dei seggi del premio di maggioranza, anche se al primo fossero stati esclusi dall’assegnazione di seggi per non aver superato la soglia di sbarramento. E’ bastato questo per ottenere un mezzo sì anche da parte del Nuovo Centro destra di Alfano.
Con il passare del tempo, i partiti cosiddetti minori hanno però cominciato a riflettere: che succede se non si va al secondo turno, perché immediatamente una coalizione raggiunge e supera la quota del 35 % del totale dei voti validi, che costituisce la condizione che sarebbe fissata per fare scattare il premio in seggi? Succede che questi partiti risulterebbero gabbati: pure quelli che hanno concorso a far vincere la coalizione, resterebbero esclusi dalla rappresentanza in forza del meccanismo della soglia di sbarramento.
Noi poveri mortali pensiamo che l’approvazione di una legge elettorale, ossia delle regole del gioco democratico, debba essere qualcosa di qualitativamente diverso da una partita di poker.
Sostenere che la causa prima dell’ingovernabilità italiana vada individuata nel fatto che in Parlamento siano rappresentati anche cinque o sei partiti che raccolgono un consenso inferiore all’otto per cento sul piano nazionale, significa mentire sapendo di farlo. E’ una teoria cara a Berlusconi, la quale non diventa vera perché molto ripetuta. Il cosiddetto potere di ricatto dei partiti minori ha avuto effetti molto meno dirompenti delle frizioni interne ai partiti maggiori. I quali spesso sono uniti soltanto da accordi di spartizione del potere e non hanno alcun cemento ideale o politico-programmatico che realmente li tenga insieme.
In ogni caso delle due, l’una: o la soglia di sbarramento è giusta in sé e razionalmente dimensionata, ed allora deve valere sempre per tutte le liste, indifferentemente dalla circostanza che si tratti di primo o secondo turno di votazioni, e a prescindere che si tratti di liste coalizzate o non coalizzate; ovvero la soglia di sbarramento diventa un’arma, uno strumento di pressione, che i due partiti maggioritari (Partito Democratico e Forza Italia) utilizzerebbero per ricattare i partiti potenziali alleati, minacciandoli di escluderli dal vincolo di coalizione, quindi dalla possibilità di ottenere rappresentanza parlamentare.
2) Della “vocazione maggioritaria” del Partito Democratico.
L’espressione “vocazione maggioritaria” è stata molto utilizzata da quello che, storicamente, è stato il primo Segretario del PD: Walter Veltroni. L’abbiamo sentito, nella riunione della Direzione del 20 gennaio, dare il proprio convinto sostegno a Renzi. C’è, infatti, una continuità logica, oltre che politica, tra i due.
Provo a tradurre per i non iniziati alle segrete cose della politica. Il modello bipolare (ma i suoi fautori preferirebbero bipartitico), è quello secondo cui la dialettica politica, inclusa quella parlamentare, dovrebbe ricondursi a due soli soggetti. L’uno che incarni una posizione di centrodestra; l’altro che incarni una posizione di centrosinistra. I due soggetti dovrebbero ora alternarsi nel governo del Paese, ora convergere per supreme ragioni di solidarietà nazionale, sempre comunque rispettandosi e trattandosi reciprocamente con garbo ed eleganza: essendo tutti e due convinti di essere l’Élite, di incarnare la governabilità ragionevole. Oltre queste colonne d’Ercole ci sono soltanto demagoghi antisistema.
In questa logica non sono tanto importanti i contenuti (ad esempio ci si dice di “centrosinistra” perché si avverte l’esigenza di una maggiore equità sociale e, quindi, in concreto, si vogliono i provvedimenti A, B, C, e si è contro i provvedimenti D, E, F), quanto l’occupare una delle due posizioni strategiche nell’impianto bipolare. Vocazione maggioritaria significa, in altre parole, trarre una rendita parassitaria dall’occupare una determinata posizione nello schieramento politico.
Come conseguenza pratica della predetta concezione, il Segretario che ha vinto le elezioni primarie ha diritto di parlare a nome, non soltanto dei cittadini che hanno votato per lui (1.895 mila), ma anche di quelli che hanno votato altri due candidati programmaticamente alternativi a lui (910 mila). Il Segretario che ha vinto le elezioni primarie non ha soltanto il diritto di proporre, come riterrebbe un sempliciotto genuinamente democratico, ma ha acquisito il diritto di comandare: lui detta la linea; chiunque altro può soltanto entusiasticamente dire di sì, oppure è meglio che se ne vada fuori dal Partito. La questione delle liste bloccate è un tassello fondamentale di questa concezione: il Segretario onnipotente deve avere l’ultima parola nella compilazione delle liste elettorali. I dissidenti si regolino.
Per tornare alla proposta di riforma della legge elettorale, Renzi ha scoperto che Berlusconi non vuole né i collegi uninominali, né le preferenze per candidati nelle liste circoscrizionali. Qui bisogna aggiungere che Berlusconi è coerente, perché la legge n. 270/2005 era una sua creatura e perché per lui la sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 è stata poco più che un tentativo di disturbare il manovratore. Osservare la lettera e lo spirito di quella sentenza della Corte, quindi, è l’ultima delle sue preoccupazioni. Il povero Renzi, invece, per il bene superiore della Patria che chiede una nuova legge elettorale maggioritaria, si adatta, suo malgrado, al Diktat di Forza Italia. Il massimo che si possa ottenere è liste corte: bloccate e senza preferenze, va da sé. Ma la cosa più incredibile è che il Segretario del PD teorizzi che il pacchetto di riforme non si può discutere. Il Parlamento ha soltanto la libertà di approvarlo, o di non approvarlo, così come ha il dovere di fare in fretta. Cosa ci vorrà mai ad approvare una legge elettorale?
Noi poveri mortali sappiamo almeno una cosa: che la legge elettorale è una costruzione delicatissima, dove tutto si deve tenere logicamente. Di conseguenza, la fretta è cattiva consigliera. Tanto più quando si passerà alle riforme costituzionali.
3) Della spregiudicatezza in politica.
Pier Luigi Bersani — al quale faccio i più sinceri auguri di completa guarigione — era meno bravo di Renzi, era più conservatore, laddove Renzi sarebbe il giovane innovatore? Secondo me Bersani ha soltanto preso in considerazione più compatibilità politiche di quante Renzi sia disposto a farsi carico. Inclusa l’esigenza di non entrare in rotta di collisione con il Presidente della Repubblica, prima e dopo la sua rielezione. Incluso il senso del dovere, elementare per chi rivesta il ruolo di Segretario, di tenere unito il Partito Democratico, senza aver fretta di mettere alcuno alla porta. Di tutto questo sembra che il giovane rampante, semplicemente, se ne freghi.
Non traggo le conclusioni, perché voglio che le traggano i lettori.