L’esito delle comunali allunga la vita a Letta

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ENRICO CISNETTO

MA GLI MANDA ANCHE UN SEVERO MONITO – Il risultato delle elezioni amministrative, al netto delle solite forzature interpretative, ci consegna un quadro di ulteriore distacco tra politica e cittadini, e in particolare delle due forze politiche maggiori e delle loro vecchie alleanze bipolari. Sul primo punto media e analisti si sono soffermati: l’affluenza è stata del 62,38%, facendo registrare un crollo di quasi 15 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2008, quando a recarsi al voto fu il 78,1% degli aventi diritto, e di dodici punti rispetto alle politiche del febbraio scorso, quando l’astensione fu del 25%. Record in negativo a Roma, dove solo un elettore su due si è recato alle urne segnando un’affluenza del 52,8% contro il 73,6% del 2008. Dunque il primo partito italiano si conferma e si consolida essere quello dell’astensione, cui si deve aggiungere chi la scheda l’ha lasciata bianca o l’ha annullata. Sul dettaglio che a perdere voti siano stati sia Pd che Pdl, invece, si è detto poco, preferendo soffermarsi sul netto calo dei voti riportati dai grillini pentastellari.

Ma politicamente ciò che conta è l’andamento dei partiti di governo. Il Centro non è misurabile, visto che Scelta Civica non c’era (se non sotto forma di qualche lista locale) e che l’Udc si è addirittura divisa, come a Roma. Ma questo la dice lunga sulle prospettive future di un comitato elettorale che non è per nulla riuscito a diventare partito, né tantomeno è stato capace di unire le forze centriste residue.

Il Pd è stato definito vincitore, perché è presente in quasi tutti i ballottaggi e ci è arrivato quasi sempre stando avanti rispetto agli avversari. Peccato però, che dopo aver perso tre milioni e mezzo di voti alle politiche, abbia continuato a perderne anche alle amministrative.

Il Pdl, invece, era dato in vantaggio sui sondaggi, e per questo è parso perdente. In realtà, non ha fatto altro che consolidare la scivolata delle politiche, dove pur recuperando su funeree aspettative, perse 6 milioni di voti. Prendiamo i dati di Roma, che sono più facilmente leggibili perché non influenzati come in altri Comuni da liste locali (Marchini di fatto ha preso il posto del duo Monti-Casini rispetto alle politiche): rispetto alle comunali del 2008 il Pd ha perso 295 mila voti, pari ad un calo del 43%, mentre rispetto alle politiche 2013 ha perso 191 mila voti, con un calo del 41%. Quanto al Pdl, sempre su Roma, i voti persi sono stati rispettivamente pari a 458 mila (-65%) e 103 mila (-34%). Insomma, un flop continuo e inarrestabile per entrambi i protagonisti “controvoglia” delle larghe intese.

Ora, i nostalgici del bipolarismo armato hanno subito trovato la spiegazione: Pd e Pdl perdono consensi perché, pur essendo partiti alternativi, si sono messi insieme, prima con la foglia di fico del governo tecnico e ora direttamente. Decifrazione puerile. La verità, invece, è che ai due partiti maggiori – che divergono essenzialmente su una cosa: Berlusconi – gli italiani imputano di non essere capaci di governare, separati o insieme che siano. Per cui, dopo vent’anni di scontro bipolare, in cui centro-sinistra (prevalentemente nel primo decennio) e centro-destra (prevalentemente nel secondo) hanno mostrato limiti macroscopici, gli italiani non sono affatto contrari al loro unire le forze, a patto che la grande coalizione serva a realizzare ciò che separatamente non sono stati capaci di fare, e non a sopravvivere nell’attesa di tornare a scontrarsi, e magari per l’ennesima volta intorno alla figura di Berlusconi.

Per questo le elezioni di fine maggio rappresentano un vantaggio ma nello stesso tempo un monito per il governo Letta. Il vantaggio deriva dal fatto che Pd e Pdl dovrebbero aver tratto dai risultati comunali la convinzione che se si tornasse presto a votare per le politiche, entrambi non riuscirebbero a vincere, anche se dovesse consolidarsi lo svuotamento di consensi a Grillo (quei voti finirebbero per consolidare il partito dell’astensionismo o andrebbero al prossimo protestatario capace di acchiappare le simpatie degli incazzati). Il monito è che se il governo non batte chiodo, quando presto o tardi si andrà al voto, sarà la debacle per tutti.

E non sarà l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che li salverà, perché ciò che disturba è il rapporto inversamente proporzionale tra il costo (alto) della politica e il suo rendimento (basso). Abbassare il costo – ammesso e non concesso che si riesca e che davvero sia la strada giusta abolire il finanziamento senza normare in modo anglosassone quello privato – senza riuscire ad alzare significativamente il rendimento, cioè i risultati di governo sulle grandi questioni economiche e sociali, non serve a nulla. Sia in assoluto, sia in relazione all’obiettivo di riconquistare il consenso perduto degli italiani. L’abbiamo detto fin dal primo giorno e lo ribadiamo: se il governo Letta vuol battere un colpo per fronteggiare la crisi, smetta di mediare preventivamente e metta la maggioranza di fronte al prendere o lasciare. Tutto il resto è inutile.

Terza Repubblica

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