ENRICO CISNETTO
Prima il Quirinale, poi palazzo Chigi. Nei 40 giorni che ci separano dalle elezioni, l’unico risultato – si fa per dire, naturalmente – che quel che rimane del sistema politico è riuscito a produrre è l’inversione dell’ordine temporale (e logico) con cui si dovrebbe procedere alle scelte: non più prima il governo e poi il Capo dello Stato, ma viceversa. Quasi che le difficoltà a far nascere un qualunque esecutivo fossero dipese da Napolitano. Oddio, in fondo questa è la tesi di Bersani: non gli ha dato il via libera a cercare in Parlamento, al buio, la maggioranza che sulla carta non possiede perché vorrebbe allearsi con Grillo che non vuole e non vuole allearsi con Berlusconi che invece vorrebbe. Ma è del tutto evidente che trattasi di tesi infondata: Napolitano non gli ha dato quel semaforo verde perché glielo aveva detto anticipatamente (il pre-incarico è cosa diversa dall’incarico pieno e senza condizioni), ma soprattutto perché non aveva senso accondiscendere a una tale fesseria, concepita per egoismo personale e non per il bene del Paese.
Solo che nel momento in cui il Presidente ha detto a Bersani che senza una maggioranza certa e certificata non lo avrebbe mandato alle Camere, ci sarebbe voluto un altro incaricato. Così non è stato, e solo fra qualche tempo, quando la polvere si sarà sedimentata, capiremo perché. Sta di fatto che Napolitano, probabilmente preso in contropiede dalla reazione di Bersani – che uscito dal colloquio con lui ha fatto dire che non aveva affatto rinunciato al suo pre-incarico – non se l’è sentita di scegliere una figura istituzionale (l’indiziato numero uno era il presidente della Corte Costituzionale, Franco Gallo) e ha preferito guadagnar tempo, o se si vuole riempire un tempo altrimenti vuoto, con i cosiddetti “saggi”. Cosa sarebbe successo se Napolitano avesse scelto la strada più “decisionista”? Difficile dirlo, anche se noi restiamo convinti che il Pd, volente o nolente, si sarebbe dovuto ritrovare nelle ultime parole usate da Enrico Letta all’uscita dal colloquio al Quirinale: “Non mancherà il nostro supporto responsabile alle decisioni che il Presidente prenderà”. Così come siamo convinti che logica conseguenza di un tentativo di governo istituzionale, a tempo determinato e con obiettivi predefiniti, sarebbe stata la riconferma di Napolitano al Quirinale. E che l’interessato alla fine avrebbe accettato – ben sapendo che non avrebbe certo fatto il settennato pieno – di fronte ad una richiesta unanime di quella stessa maggioranza larga Pd-Pdl-Scelta Civica che avrebbe sostenuto il nuovo esecutivo.
Sta di fatto che il Capo dello Stato ha scelto diversamente. Ora, si può dubitare quanto si vuole, nel metodo e nel merito, della “invenzione” di Napolitano, ma è evidente che essa è figlia dell’impasse prodotta, da un lato, dalla cocciutaggine di Bersani e, dall’altro, dall’incapacità del Pdl di offrire spazi di manovra alternativi con quella sua insistenza sul “governo politico senza limiti di tempo e di mandato”. Stallo a cui non si può replicare a cuor leggero con quel “allora si vada alle elezioni” di cui un po’ tutti stanno abusando, se si ha la coscienza che tornare subito alle urne – giugno-luglio o settembre, poco importa – e per di più con la stessa legge elettorale che produce ingovernabilità pur regalando un assurdo premio di maggioranza, finirebbe per premiare il voto di protesta più di quanto non sia già avvenuto il 25 febbraio.
Adesso, però, sembra consumata ogni residua possibilità di convincere Napolitano – che in queste ore è apparso sconsolato di fronte ad una situazione che lui stesso ha, giustamente, definito “surreale” – a restare, e pare non esserci altra possibilità che far trascorrere i dodici giorni che ci separano dalla prima votazione per il nuovo inquilino del “palazzo sul Colle” (18 aprile) a vedere impegnati i partiti in giochi e giochetti per individuare un nome. Qui, al di là dei nomi, le strade sono tre. Primo: una scelta di Bersani stile “Grasso-Boldrini”, di un sicuro anti-berlusconiano (Rodotà, Zagrebelsky) cui possano accodarsi i pentastellari (dissidenti o furbescamente lasciati “liberi” da Grillo). Secondo: una scelta Bersani-Monti (lo stesso premier o la Finocchiaro) con qualche voto grillino aggiuntivo. Terzo: una scelta sostanzialmente condivisa tra Pd e Pdl (qui i nomi sono molti, ma forse Marini ha più chance di Gianni Letta, D’Alema, Amato, ecc.). Bersani vorrebbe che ciascuna di esse portasse comunque ad un presidente che per prima cosa lo incarichi senza condizioni di formare il governo. Dopodiché al segretario del Pd va bene sia riuscirci che no, perché in questo secondo caso capeggia un governo minoritario che gestisce le elezioni anticipate e senza che il Pd debba fare le primarie (avendo già il presidente del consiglio in carica, quello è il candidato naturale).
Il fatto è che in tutte queste combinazioni entra la variabile Renzi, che può andare dall’interferenza minima (entra anche lui nel meccanismo decisionale) a quella massima (rompe il Pd). Già, perché in attesa di capire se questa inversione Quirinale-governo imposta da Bersani e subita da Napolitano darà o meno i frutti (bacati) di cui abbiamo detto, vale la pena di guardare il film che ha per protagonista la sinistra. È un film iniziato il 12 novembre 1989, giorno della “svolta della Bolognina” con cui Occhetto mise fine al Pci, che si sciolse poi il 3 febbraio di due anni più tardi, e che non si è mai interrotto. È dalla caduta del muro di Berlino e la conseguente fine del comunismo organizzato su scala internazionale che la sinistra tenta di fare i conti con se stessa, con le sconfitte storiche che ha dovuto subire. C’è riuscita formalmente, non sostanzialmente. Ed è per questo che da quasi un quarto di secolo è in corso una guerra intestina tra fazioni, gruppi, correnti e uomini che di quella sono stati protagonisti o discendenti – cui si è pure incrociata, con la nascita del Pd, una vicenda non meno sanguinosa tra cattolici di varie ascendenze – regolamento di conti che non si è fermato e che è tuttora in corso. E di cui lo scontro Bersani-Renzi è probabilmente l’epilogo, così come lo è della storia della Seconda Repubblica. Il cui epilogo sta trasformando l’incapacità di prendere atto del suo fallimento e conseguentemente di avviare una nuova stagione politica, in una tragedia per tutti.
Ma sia chiaro, osservare che in questa fase si stia caricando di maggiore responsabilità la sinistra, non assolve certo la destra. Certo, la colpa della sinistra è verissima, e affonda le radici nell’assurda idea del Pd, nata in occasione delle primarie, di riproporre la contrapposizione bipolare sulla base della presunzione, rivelatasi errata, di avere già la vittoria in tasca e che Berlusconi fosse out. Follia che si completa, dopo le elezioni, con la pazzoide ostinazione di Bersani a voler andare a palazzo Chigi con la benedizione di qualche grillino dissidente. Ma questo non cancella, anzi aggrava, la responsabilità del “non governo” berlusconiano dal 2001 in poi e della fragilità politica della sua “rimonta” elettorale. Ora resta solo una speranza (flebile): che chi capisce e non è d’accordo, dall’una come dall’altra parte, esca allo scoperto. Costi quel che costi. Renzi l’ha fatto, ma non basta. Sia perché deve andare fino in fondo, sia perché c’è bisogno che altri nel Pd escano dalle tane. E sia perché, infine, c’è bisogno che qualcuno faccia la stessa cosa sull’altro fronte.
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