Il “bianco e nero” non si usa più – 27 Gennaio, Giorno della memoria

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MARTINA CECCO

Sono passati solo 13 anni dal giorno in cui, il 20 Luglio del 2000, il Parlamento Italiano promulgava una legge di due soli articoli, che ha fatto spazio al “Giorno della Memoria” riconosciuto come giornata nazionale dedicata al ricordo dello sterminio e alle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati politici e militari nei campi nazisti.

La data scelta, il 27 gennaio, è l’anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, il campo di concentramento che nella storia, per la sua dimensione e per il numero di persone che ha ospitato, è ricordato come il luogo simbolo del Nazismo, della II Guerra Mondiale e più in generale, con il tempo, è diventato anche il simbolo di quello che non si vuole più vedere in Europa. L’odio.

Razzismo, intolleranza, omofobia, sono tante le diverse facce del 27 gennaio 1945, che non per niente è stato, a distanza di oltre cinquant’anni, immortalato in una data commemorativa che ricorda non solo chi ha perso la vita nei campi di concentramento, ma ricorda anche chi è stato deportato, chi ha combattuto contro le leggi razziali e chi si è prodigato per un diverso volto della guerra, quello che la guerra “la frega”. Perché in guerra in tanti uccidono, e non sempre per obbligo.

Ci sono voluti oltre cinquant’anni per superare il dolore e la vergogna della generazione che ha vissuto di persona la II Guerra Mondiale, ricordandosi di nonni, genitori, amici combattenti o partigiani, deportati o esuli che a seconda della situazione si sono trovati a recitare una parte secondo un copione che non è stato scritto di pugno.

Ed è proprio in questi anni che il revisionismo storico, la dietrologia, l’apologia del nazionalsocialismo, hanno potuto lentamente, non senza sforzo, aprire le fitte maglie di una logica maturata di conseguenza a dei fatti storici, seconda a una educazione impartita e inculcata con il rigore di un addestramento militare e limitata da una generica non conoscenza precisa dei fatti di guerra, se non per come li può vivere chi è quindi assoggettato a una guerra, che a leggere la storia sui libri è più facile che non esserci di persona.

“Perché il fascismo è stato un periodo buono per l’Italia – si sentivano spesso parlare così quelli di trent’anni fa – e ci vorrebbe anche al giorno d’oggi il Mussolini” perché in tutto quello che è stato in Italia, prima del 1945, Mussolini ha rappresentato per i poveri, per i contadini, per la gente che non aveva in tasca un soldo, il primo uomo alla guida della nazione che ha saputo trasmettere quel valore patrio di una Italia unita, che dava importanza a tutti e che metteva tutti sullo stesso piano. Del resto a chi non ha mai avuto niente, basta poco per sentirsi bene.

Mussolini figlio dei tempi, conseguenza di un percorso politico, e qualche merito personale; e poi la storia fa il suo corso, del resto chi non si auto-assolve, “finisce che finisce” cioè termina, insomma muore. E non può morire una nazione. In viaggio, tra i germanici, quanti sono ancora quelli che non vogliono ricordare.

Che nel 2013 in Italia si ricordino quindi i campi di concentramento è un fatto sicuramente buono, che va però portato al presente poiché tutt’ora l’ONU, i “Caschi blu”, le “Organizzazioni umanitarie” e le “Red Cross” intervengono nelle zone in crisi ed emergenza umanitaria e combattono quotidianamente contro situazioni di abuso e di attentato alla vita, dove sono in corso conflitti, carestie, genocidi e stermini, crimini contro l’umanità, nella totale indifferenza rispetto alla “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”.

Le ferite inferte dalla politica italiana hanno saputo essere così profonde, e non è stata certo la guerra a condurre a questo (bensì chi è venuto dopo e ha saputo fare tesoro del coriandolo di potere datogli con la rappresentanza democraticamente legittimata) che a distanza di 68 anni da Auschwitz con il suo sarcastico e beffardo “Arbeit Macht Frei” sulle vittime di guerra i partiti fanno ancora la spartizione delle salme, e così se per la destra italiana “memoria” significa pensare agli infoibati, per la sinistra italiana “memoria” significa nazismo. E per chi sa starci dentro, a questa danza, c’è tanto rispetto, una manciata di voti e un po’ di colore, che il “bianco e nero” non si usa più.

Alla buona pace delle vittime di guerra, tutte, di tutti i conflitti e di tutte le ingiustizie, di tutti gli interessi e pure della malafede. Perché lo scrisse in una frase sola, poche parole chiare e concise che descrivono perfettamente la specie umana, meglio di tanti poemi, lo disse chiaro Primo Levi (scrittore e anche partigiano, ma principalmente deportato, nato a Torino il 31 luglio 1919 e morto lì, l’11 aprile del 1987).

Primo Levi descriveva in un suo romanzo, famosissimo, i campi di concentramento, anzi no, descriveva proprio il “suo” periodo nel campo, ad Auschwitz (ma molti italiani finirono anche a Birkenau e in altri campi minori). Parlava in quel libro non soltanto della quotidianità nel campo, ma più che altro di come diventano relativi i valori della vita e della esistenza, quando il “limite” tra il vivere e il morire si riducono a poco più che respirare, mantenere le proprie funzioni vitali, sentendosi un po’ nulla, quando insomma il limite tra la vita e la morte è così sottile, non c’è più niente in cui sperare e credere, non ci sono possibilità, così com’è dove ci sono la fame, le carestie, le guerre.

Scriveva questa frase, che in fin dei conti, racchiude il senso della Giornata della Memoria: “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”.

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