Egitto. Non ci sarà un nuovo Mubarak

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di JANIKI CINGOLI

Mentre Mubarak si viene spegnendo, l’incertezza domina ancora sul risultato delle elezioni presidenziali, con i due candidati, l’islamico Morsi e il candidato ufficioso delle Forze Armate, Shafiq, che si proclamano entrambi vincitori, dichiarando un 52% dei voti a proprio favore contro il 48% dell’avversario. La situazione esprime bene il braccio di ferro in atto tra le due forze che storicamente si contendono il potere nel paese, l’esercito e i Fratelli musulmani.

Ma vi è una terza componente che non compare in questi primi risultati, ed è quel 49,3 per cento che al primo turno era andato ai candidati di area più democratica (più del 48,4 totalizzato d a Morsi e Shafiq insieme). Candidati come il nasseriano Hamdeen Sabbahi, l’islamico “pluralista” Abdel Moneim Aboul Fotouh, e Amr Moussa, già Segretario generale della Lega araba: il loro voto si è perso per strada nel passaggio dal primo al secondo turno.

Di quell’area in qualche modo più progressista, una parte si è certamente rifugiata nell’astensione (la partecipazione al voto si è abbassata dal 47 per cento al 35, anche se in parte la riduzione è da considerarsi fisiologica); molti di coloro che avevano votato per Sabbahi e Moussa, più legati alla eredità nasseriana, si sono orientati su Shafiq; mentre è probabile che la base elettorale di Fotouh sia riconfluita nell’alveo del candidato islamico.

Quanto ai gruppi legati a Piazza Tahir, anch’essi probabilmente si sono divisi tra astensione, voto per Morsi pur di combattere il tentativo di restaurazione della giunta militare, e voto per Shafiq pur di contrastare il crescente integralismo dei Fratelli musulmani. Quest’area paga il prezzo delle sue divisioni e della sua ingenuità, ed anche dei suoi errori, che hanno dato spazio agli appelli alla normalizzazione fatti propri da entrambi i candidati del secondo turno. Ma non è scomparsa, ed esprime con crescente consapevolezza una maturazione complessiva della società egiziana, almeno nelle grandi città, che sarà difficile ignorare o cancellare completamente. Di questo sono consapevoli i Fratelli musulmani, che in questo anno e mezzo che ci separa dalla primavera araba hanno costantemente usato l’alleanza con piazza Tahir per fare pressione e sconfigg ere la resistenza dell’establishment militare, non esitando a ritirarsi dalle piazze ogni volta che ritenevano di poter spuntare condizioni vantaggiose dal Consiglio supremo delle forze armate.

Ma questa politica dei due forni pare giunta a un punto di non ritorno: l’ordinanza con cui la Corte costituzionale, nominata da Mubarak, ha sciolto il parlamento dominato dalle diverse formazioni islamiche; e quelle con cui il Consiglio militare ha privato il presidente che sarà eletto di molte delle sue prerogative, ristabilendo la legge marziale, riservando a sé il compito di scrivere la nuova Costituzione, nonché il potere legislativo, il controllo sulle finanze, quello sugli affari militari e sulla sicurezza, e imponendogli persino la nomina del capo di gabinetto, tracciano uno stop di fronte a cui l’organizzazione islamica dovrà scegliere.

È probabile che si prepari ad uno scontro controllato, in cui come sempre la piazza verrà usata per concludere il miglior compromesso possibile. I Fratelli musulmani non lavorano sul breve periodo, pensano di avere il tempo dalla loro parte. Ma anche l’esercito gioca una battaglia senza mercé: messi di fronte all’ipotesi di un doppio en plein dei Fratelli musulmani, che controllavano già il parlamento e ora potevano conquistare la presidenza (a cui avevano deciso di concorrere rovesciando i precedenti impegni presi), non hanno esitato a rovesciare il tavolo, attuando una sorte di colpo di stato militare “bianco”, fondato su cavilli e dubbie interpretazioni giudiziarie di corti addomesticate.

L’esercito difende non solo l’eredità nasseriana, ma i più corposi privilegi economici e sociali di cui gode e di cui non vuole privarsi: esso controlla direttamente oltre il 30 per cento dell’economia del paese, ed il sistema di welfare di cui gode la casta militare, dalle abitazioni, ai circoli ricreativi e sportivi, alle ville e alle case di vacanza, ad un sistema sanitario riservato, non costituiscono solo uno status symbol, ma garantiscono un livello di vita e un potere sulla società non facilmente rinunciabili.

Tuttavia, l’esercito gioca pure sulla diffusa preoccupazione in ampi settori della società, non necessariamente reazionari, angosciati per la permanente instabilità e insicurezza, per la galoppante crisi economica, ed anche per la crescente sfida dell’integralismo islamico da cui non sono stati certo esenti i Fratelli musulmani eletti nel parlamento ora disciolto. Un timore questo che ha attanagliato in primo luogo la numerosa minoranza copta, che rappresenta il 10 per cento del paese.

Quale sia il risultato finale delle elezioni, quella a cui stiamo assistendo è certamente una transizione lunga e tormentata. Ma chi, anche nel Consiglio militare egiziano, pensasse di far tornare indietro l’orologio, rimettendo al potere un nuovo Mubarak, è probabilmente destinato a ricredersi presto.

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