di FABIO VERNA
Dopo l’ampia conflittualità scaturita negli ultimi mesi, fra il Governo e le parti sociali, la riforma del lavoro giunge in parlamento, portandosi appresso un complesso nodo da sciogliere, quello connesso all’art.18 ed alla cosiddetta flessibilità in uscita. Personalmente ritengo che la questione dell’abrogazione di questo significativo passaggio della Legge n. 300 del 20 maggio del 1970, maggiormente nota come lo “Statuto dei lavoratori”, sia ormai da considerarsi solamente una questione ideologica, in quanto coinvolge una quota estremamente minoritaria sia d’imprese che di lavoratori. La Confindustria sostiene che questo lacciolo possa frenare le nuove assunzioni, mentre i sindacati vorrebbero mantenere l’eventualità del reintegro nel posto di lavoro quale argine al potere degli industriali.
Il Governo sostiene che il modello contrattuale europeo non prevede questa specifica tutela dei lavoratori ed inoltre come questo vincolo possa frenare gli investitori internazionali; taluni economisti analizzando i dati sostengono che trattandosi di una norma applicabile ad una percentuale modesta delle nostre imprese la valenza sostanziale sia esigua; altri, maggiormente intransigenti, invece intenderebbero ampliare la nuova normativa anche ai dipendenti della Pubblica amministrazione. Mentre i sindacati oltranzisti affermano che si tratti di un diritto inalienabile che non inciderebbe in alcun modo sulla flessibilità in entrata, ovvero sulle nuove assunzioni. E se la soluzione fosse diversa ed addirittura molto più semplice, tacitando la sopra solo accennata conflittualità, che in questa fase recessiva finisce solamente col rallentare i provvedimenti destinati alla crescita.
La norma sancita dall’art.18 può applicarsi alle sole imprese con più di 15 addetti a tempo indeterminato, dunque per verificare la tesi della Confindustria, ovvero che le aziende non assumono nel timore di caricarsi di collaboratori a tempo indeterminato in un momento di conclamata recessione economica, potremo mettere da parte l’oggetto del contendere ed individuare un obiettivo economico e non ideologico; senza abrogare l’art.18 rimandando altresì ad un governo che sia diretta espressione del parlamento questa complessa riforma. Per allinearsi alle reali necessità del nostro tessuto imprenditoriale basterebbe spostare in avanti l’assicella, la linea di demarcazione sancita proprio dall’art.18 fissata appunto a 15 dipendenti assunti con un contratto a tempo indeterminato.
I milioni di piccole imprese distribuite a “macchia di leopardo” nei distretti industriali, la reale forza produttiva del nostro paese, la nostra cosiddetta P.M.I., che in moltissimi casi aspirano a crescere sia nei volumi di fatturato sia come numero di addetti, potrebbero dimostrare nei fatti quanto affermano da anni in linea teorica ovvero l’interesse ad aumentare la forza occupazionale anche se solamente di poche unità, ma che vengono frenate nelle loro politiche di crescita dalla vincolante normativa del lavoro. Ipotizziamo dunque di portare questa linea di conflittualità dai 15 addetti alla possibile nuova soglia di 20 addetti e potremo così valutare effettivamente le scelte dei nostri imprenditori in merito alle nuove auspicate assunzioni ed a nuovi investimenti, necessari alla realizzazione di ulteriori posti di lavoro. Ritengo sia ampiamente condiviso l’assunto che indica come siano le imprese a creare occupazione e non i decreti legge; altresì è noto come le politiche monetarie delle banche centrali e le normative contrattuali liberali possano favorire la ripresa economica e con essa l’occupazione.
Il cosiddetto “stato sociale” così come antecedentemente impostato nel nostro paese, risulta ormai insostenibile, in quanto il peso del debito pubblico, gravissimo handicap per la ripresa economica, è stato iniquamente scaricato sulle prossime generazioni e pur con scelte decisamente impopolari viene oggi corretto dal Governo attualmente in carica. Nei costanti confronti di idee avuti con uomini politici, con industriali o con sindacalisti, da più parti mi è stato chiesto se la soluzione a quest’annosa questione possa essere effettivamente prioritaria per uscire dalla corrente fase recessiva, naturalmente ritengo che vi siano priorità maggiormente rilevanti quali la lotta all’evasione fiscale od alla criminalità organizzata, ed ancora la semplificazione di molteplici normative, ma la riforma della normativa del lavoro appare il passaggio più semplice da mettere in atto.
Quello che può contribuire almeno in tempi stretti, ad una ripresa del mercato del lavoro e con questo al rilancio dei consumi interni. Comunque da qualche parte si dovrà pur iniziare e la vigente normativa appare ormai superata dal tempo e dalla globalizzazione.