di LUCA MARTINELLI
Anche un colosso come l’Enciclopedia Britannica ha dovuto capitolare: l’edizione 2010 sarà l’ultima versione cartacea della più importante enciclopedia al mondo, che d’ora in poi sarà consultabile solo via Internet. La notizia è stata annunciata dal presidente della Encyclopedia Britannica, Inc. Jorge Cauz.
La decisione, sebbene storica, appare come qualcosa di inevitabile e di già ampiamente previsto dall’azienda: solo il 15% dei ricavi, infatti, deriva dall’enciclopedia (perlopiù abbonamenti alla versione online e app per smartphone), mentre larga parte del restante 85% deriva da altri “prodotti e servizi educativi”.
Cauz ha dichiarato che “al contrario dei giornali, noi abbiamo sentito l’impatto del digitale molti anni fa, dunque abbiamo avuto parecchio tempo per riflettere“, rivendicando anche che la società editrice Britannica è l’unica “ad aver compiuto la transizione dai media tradizionali alla sfera digitale, continuando a crescere e generare profitti“.
La Britannica è solo l’ultima di una lunga serie di enciclopedie che hanno dovuto ridimensionare i propri progetti editoriali, se non addirittura dichiarare fallimento (come Encarta). I motivi sono molto semplici: il web garantisce più facilità di ricerca, più possibilità di aggiornare e ampliare l’offerta di contenuti e più capacità di fruizione, rispetto a una voluminosa e costosa enciclopedia che occupa interi scaffali di una libreria (o anche solo in CD o DVD).
L’evoluzione in tal senso del mercato editoriale sta andando avanti da anni ed è stata ulteriormente accelerata dalla rapida crescita di Wikipedia, l’enciclopedia libera. Soprattutto la concorrenza creata da quest’ultima ha permesso di ridurre violentemente i costi dell’accesso al sapere: l’edizione del 2001 della Britannica costava la bellezza di 2000 dollari, mentre l’ultima edizione (quella del 2010, con annessi due dizionari e un thesaurus) costava appena 30 dollari.
Il timore è, tuttavia, che il settore delle enciclopedie si sia trasformato in un mercato a costi marginali decrescenti, ossia in un mercato in cui all’aumentare della produzione diminuiscono i costi – un meccanismo che porta alla creazione di un cosiddetto “monopolio naturale”, in assenza di una regolamentazione pubblica che lo impedisca. In questo senso, è facile preconizzare che ci saranno altre vittime illustri e che, alla fine, resteranno in piedi solo poche istituzioni in grado di poter reggere la concorrenza di Wikipedia, la candidata naturale al “monopolio” a cui si faceva riferimento.
Ovviamente, qui si sta ragionando in termini puramente teorici: Wikipedia stessa non ha alcun interesse, anzi avrebbe soltanto da perdere, dal fallimento dei suoi concorrenti. L’enciclopedia libera, infatti, si basa su fonti attendibili – e ci sono ben poche fonti attendibili migliori di una enciclopedia nazionale scritta e aggiornata dai principali esperti. Qualora una di queste fallisse, Wikipedia stessa perderebbe una fonte affidabile per le sue voci.
Serve, dunque, salvaguardare non tanto gli attori più deboli del mercato – perché si tratterebbe di un indebito aiuto ad aziende decotte, quindi di uno spreco di risorse – quanto la loro produzione editoriale: lo Stato potrebbe acquisire i contenuti di queste enciclopedie e rilasciarli nel pubblico dominio, permettendo così ad altri attori di poter consultare e riutilizzare tali contenuti – magari vendendo a 0,99 € una versione aggiornata della voce originaria.
Una alternativa è fornita dalla Den Store Danske Encyklopædi, la Grande Enciclopedia Danese: realizzata fra il 1994 e il 2001, dal 2009 è stata messa online in modo del tutto gratuito. Non solo: è anche liberamente aggiornabile dagli utenti, sebbene uno staff di 1100 esperti sorvegliano e controllano le modifiche.
Sappiamo, in definitiva, che una rivoluzione non può non compiersi senza vittime. Questo non significa che la conoscenza debba essere fra queste, anzi.