La macchina inceppata

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Francesco Febbraro è comunista, un comunista alla Umberto Terracini vale a dire rispettabile.

Noi che comunisti non lo siamo e non lo siamo mai stati pensiamo da sempre che la battaglia contro la degenerazione, meglio sarebbe dire la putrefazione, a cui è giunta oggi la Pubblica Amministrazione – non solo, quindi, quella comunale romana – sia cosa né di destra né di sinistra.

E’ per questo che nel riportare due brani del libro di Febbraro (La macchina Inceppata, Aracne editrice Roma, euro 16,00) riconfermiamo l’’impegno di sempre di tenere schierata la AOPECS e LiberalCafe’ dalla parte di quanti vogliono arrestare la marea montante di fango e sterco che minaccia di sommergere la MACCHINA.


Controllo e potere

L’esercizio del potere è, in qualche misura, il ritornello che accom­pagna il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione. Esso può essere di tre tipi; fine a se stesso, asservito ad un potere superiore, fi­nalizzato allo scambio.

Per quanto possa apparire illogico, esiste anche l’esercizio del pote­re fine a se stesso. Ci sono funzionari, amministratori, semplici impie­gati e individui in genere, che godono dell’uso del potere per afferma­re la propria forza. Il proprio potere, appunto. Insomma, quello che la cultura popolare napoletana ha definito con la frase; “Cummannà è meglio che fotte…”.

Non c’è dubbio che questa categoria esista. Una categoria che in­contriamo non di rado negli uffici pubblici, diffusa un po’ a tutti i li­velli. Non capiamo perché quel funzionario si comporti così. Il com­portamento è quello di chi non ci vuole danneggiare, ma nemmeno fa­vorire. Insomma il rapporto rimane in una sorta di stand-by, di so­spensione dalla quale non sappiamo come uscire e nella quale non sappiamo come comportarci. Dobbiamo indignarci? Alzare la voce? Ricordargli i suoi doveri? O essere remissivi? Supplicare? Offrire sol­di? Scaraventarlo giù dalla finestra oppure semplicemente arrenderci ed andare via? Nulla di tutto questo.

Dobbiamo solo attendere che si compiaccia di ascoltarci e di elar­girci la sua attenzione. Nel frattempo dobbiamo sopportare la sua in­solenza, la sua maleducazione, il suo atteggiamento di sufficienza. Se sapremo essere disponibili a farlo esibire nel suo esercizio onanistico, potremo avere qualche risultato.

Non si tratta di gente pericolosa. Semplicemente di uomini mode­sti, piccoli feudatari dotati di scarsa cultura e di immensa presunzione. Gente della quale non abbiamo nessun bisogno, né noi, né l’ufficio che li ha assunti.

Meno illogico, ma sicuramente più nefasto, è l’esercizio del po­tere al servizio dei potenti. Coloro che lo praticano sono spesso persone che possiamo considerare “per bene”, perlomeno all’appa­renza. Persone che nella speranza di mantenere il proprio posto, conquistato con la fatica che è richiesta al domestico servile, sono pronte a tutto pur di essere gradite a chi comanda. Non si tratta di servi sciocchi, perché a volte sono persone dotate di conoscenze specifiche e di capacità organizzativa, ma sono assolutamente inca­paci di difendere i principi del diritto e della correttezza ammini­strativa se questi vengono messi in discussione da chi sta sopra di loro.

Ognuno di noi ne ha incontrati. Persone dalla carriera rapida e feli­ce all’ombra dei potenti. Preoccupati, è comprensibile, degli esiti elet­torali più di quanto non lo siano i politici ai quali fanno riferimento. Ne va della loro stabilità e del loro “curriculum”.

Quando richiesto dal “capo di riferimento”, sono capaci di dimo­strare che l’acqua va dal mare ai fiumi, di confutare e sostenere qua­lunque tesi, di sviluppare sillogismi settecenteschi che conducano al risultato desiderato da chi li “utilizza” in quel momento.

Seppur incapaci di resistere alle pressioni, di governare i momenti di crisi, di tenere testa al potente di turno, diventano invece molto abili quando si tratta di incanalare, inevitabilmente in maniera acritica, qua­lunque decisione nella direzione desiderata da chi li ha scelti e ha dato loro “il ruolo”.

Questi dirigenti al servizio del potere li troviamo inesorabilmente ai livelli più alti delle amministrazioni, con incarichi prestigiosi, nei con­sigli di amministrazione, nei comitati pseudo-scientifici, nelle com­missioni tecniche. Da costoro si può ottenere molto, ma solo se quel molto coincide con i desiderata di chi sta “colà dove si puote”. Non attendetevi alcun risultato nel caso opposto. Alla fine, grattando sotto la superficie apparente di perbenismo e correttezza, ci si accorge di quanto possano essere pericolosi. Di quanto il loro comportamento sia contrario ai sani principi amministrativi, di quanto le loro tesi siano fragili e resistano solo fintanto che il potere li protegge, rendendo così rischiosi e precari anche i loro favori.

Gente di cui si potrebbe e si dovrebbe fare a meno, ma il cui nume­ro nell’amministrazione è cresciuto in modo esponenziale per via del­l’introduzione dello spoil-system “all’amatriciana”.

La terza fattispecie, quella che esercita il potere per fini di scambio, è la più diffusa. Proprio la sua diffusione ce la rende però più familiare e conosciuta. Questa categoria, sebbene sia pericolosissima per la so­cietà, nemica per la legge, disprezzabile per gli onesti e cancerogena per l’Amministrazione, è per il singolo utente, paradossalmente, meno pericolosa delle altre due.

Con questa categoria di “esercenti del potere”, a differenza delle al­tre, si può aprire una trattativa da pari. Anzi, da padroni. Basta avere i soldi, la voglia e lo stomaco per registrarli sul libro paga.

Come tutto ciò che è in vendita, non rappresenta un problema per chi dispone di adeguate risorse.

E nel mondo dell’edilizia e della rendita fondiaria non mancano certo le risorse.

Volendo identificarli meglio, ne esistono due sottocategorie: gli spre­giudicati e quelli che – parafrasando una canzone di Lucio Battisti – si manifestano con la linea del “io vorrei, non vorrei, ma se vuoi… “.

Gli spregiudicati sono i più facili da trattare. Hanno tariffe chiare ed offrono tempi certi. In più abbandonano raramente il “cliente” al proprio destino.

Mi raccontava un amico di averne incontrato di recente un’esem­plare, che, per offrire la sua consulenza, che consisteva nell’assicurar­gli il Nulla Osta del suo capo (probabilmente all’oscuro di tutto), adot­tava una tariffa di 2 euro a metro cubo. Sì, esattamente due euro, quat­tro mila delle vecchie lire!

La questione, in casi come questo, si risolve nel trovare i soldi, ma l’acquisto si presenta semplice: “Venghino signori venghino, vi fac­ciamo fare buoni affari!”

Con i “vorrei, non vorrei”, invece, la trattativa è sicuramente più complessa. Vanno compresi, interpretati, ammiccati e vanno trattati con le dovute precauzioni, perché fino all’ultimo non sai mai se stai per concludere un accordo o per beccarti una denuncia per tentata cor­ruzione di pubblico ufficiale.

Una volta che il quadro è chiaro, però, sono molto più economici perché si rimettono al tuo buon cuore. Sta a te capire qual’è la soglia sotto la quale l’offerta è inaccettabile, a volte l’individuazione della soglia corretta ha la stessa complessità del “sudoku”, ma se fai in mo­do che siano loro ad avanzare la richiesta, risparmi almeno la metà di quello che eri pronto ad offrire.

In più, grazie al senso di colpa che li accompagna, li hai legati a te per sempre, indipendentemente dal fatto di ripetere l’offerta altre volte.

Al di fuori di queste tre tipologie di esercizio del potere, troviamo tutti gli altri. Quelli che lavorano senza vizi e senza pregiudizi e colo­ro che si limitano a non collaborare semplicemente perché sono delusi o amareggiati. Tra questi vi sono le persone che, anche se devono e­sercitare il potere che gli deriva dal ruolo, lo fanno avendo come o­biettivo il servizio alla collettività. Poi ci sono coloro che lavorano “con passione”, che credono nel loro ruolo, lo svolgono con coscienza e si danno da fare anche esponendosi, se necessario, per tutelare chi nemmeno conoscono.

Se state pensando che questi ultimi siano figure della fantasia, co­me gli elfi e le fate dei boschi, vi sbagliate, perché esistono e sono più numerosi di quanto si possa immaginare.

Perché non abbiano lo spazio che meritano è un mistero. O forse è meglio che resti tale. A meno di non scrivere in proposito un libro a parte.

I motivi per resistere

Innanzitutto la coerenza. Quella di chi non dovrebbe essersi dimen­ticato che una volta sognava di cambiare il mondo. Se le rivoluzioni si sono rivelate peggiori di ciò che volevano cambiare, non è una buona ragione per rinunciare per sempre al cambiamento.

Il detto ” si nasce incendiari, ma si muore pompieri” vale per chi giocava con il fuoco e non per chi ne conosceva il valore e l’utilità.

È vero, come diceva Marcuse: solo chi è fuori dal sistema, può cambiarlo. Ma fuori dal sistema bisogna starci con la testa e con il cuore. Con i fatti, con il proprio agire per il cambiamento, nel sistema bisogna starci dentro. Unica condizione, rimanere nel tempo fedeli al­le proprie convinzioni, senza lasciarsi irretire dal fascino del potere e dei soldi.

Non so se sono mai entrato effettivamente nella stanza dei bottoni, né quanto mi sia fatto irretire o affascinare dal potere. Ma so per certo che ho sempre provato a fare del mio meglio, guidato da questa consi­derazione: se si può rimanere coerenti quando si è giovani, quando si deve ancora trovare un modo per sopravvivere e sono tante le facili scorciatoie che ci si presentano e ci tentano, perché si dovrebbe rinun­ciare alla coerenza proprio quando si ha il necessario e si è in condi­zione di fare di più? La coerenza presuppone questo. Ed è una delle armi più formidabili per resistere.

In secondo luogo la speranza. Non si può vivere solo di speranza, certo. Ma non ha senso abbandonare la speranza senza aver fatto pri­ma tutto il possibile per trasformarla in realtà. Il motto che ho scelto e in cui credo, sin da ragazzo, è: ” Il peggiore rischio non è fallire, ma non tentare”. Magari con piccoli passi e miglioramenti apparentemen­te modesti. Ma sono proprio questi piccoli atti di trasformazione a cre­are le premesse per un improvviso salto di qualità. Tutti i grandi cam­biamenti sono il risultato di piccoli passi di avvicinamento alla meta, qualche risacca e poi improvvise accelerazioni risolutive.

A volte occorre pagare un prezzo. E chi crede nel cambiamento, ne è consapevole.

Avere speranza significa credere in un futuro diverso, migliore per tutti, anche grazie al proprio contributo. Una speranza fatta di sogni e di determinazione per raggiungerli. La storia ci offre mille esempi in questo senso. E in proposito mi piace ricordare Thomas Edison, che, dopo il millesimo fallimento nel tentativo di produrre la lampadina, anziché abbattersi disse: “Adesso conosciamo mille modi per non fare la lampadina, quindi siamo più vicini alla soluzione”.

La speranza, fatta di fiducia e concreta determinazione, è una delle armi più formidabili per resistere.

In terzo luogo il dovere. Il dovere ed il senso del dovere appaiono, o meglio vengono fatti apparire, sempre più come un pesante fardello sulla libertà dell’individuo. Alla ricerca dell’utile e del necessario si è ormai sostituita la ricerca del vantaggioso e del superfluo. Gli anni Ot­tanta, che hanno fortunatamente preso il posto degli anni di piombo, restituendoci un clima più disteso, hanno purtroppo favorito anche il riflusso nel privato, declinando l’intera società nell’edonismo teso alla ricerca della felicità individuale ad ogni costo. Qualcuno diceva “è la nave che va”, ma in realtà era solo un ” fin che la barca va”.

Non è rimasto quasi nulla del Paese che, con il grande lavoro e im­pegno degli anni del dopo guerra ha portato a quel boom economico che ha prodotto bellezza, fantasia e competitività. La conquista del be­nessere, tranne rare eccezioni, non è più il risultato dell’impegno, dello studio, del sacrificio e della costanza – attività che molto condividono con il “dovere” – ma di operazioni spericolate condotte all’ombra del potere politico e di furbesche rapine ai danni della collettività.

Ma c’è ancora chi, per senso del dovere, resiste. E la resistenza, a sua volta, trova la sua forza nel senso del dovere.

La facciata laterale dell’ingresso del Comune di Bologna è tappez­zata dalle foto dei martiri della Resistenza di quella città. Da quelle fo­to ci guardano coloro che hanno dato la vita per la nostra libertà. Ra­gazzi, giovani donne, madri e padri di famiglia, anziani. Ci guardano chiedendoci: “Noi abbiamo fatto il nostro dovere, cosa state facendo voi?”. Non è retorica affermare che nei loro confronti abbiamo tutti, anche coloro che non ne condividono gli ideali, una responsabilità, quella di non rendere inutile il loro sacrificio. Un sacrificio fatto per tutti e non per una parte, perché, come recita la bellissima poesia di Piero Calamandrei, la resistenza fu un “patto giurato fra uomini liberi, che volontari si adunarono per dignità, non per odio, decisi a riscat­tare la vergogna ed il terrore del mondo”.

Questa libertà va utilizzata per far crescere il nostro Paese; dob­biamo fare della responsabilità e dell’assolvimento del dovere un pun­to di orgoglio. Il senso del dovere è una delle armi più formidabili per resistere.

Insomma, siamo accerchiati, ma qualche formidabile arma per resi­stere, e magari vincere, l’abbiamo. Ma quale può essere la strategia e chi può metterla in atto?

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