Una delle poche cose certe della manovra di agosto è che la decisione sul futuro delle Province è rinviata ad un disegno di legge costituzionale, che dovrebbe anche includere il dimezzamento del numero dei parlamentari. Bella novità. Il rinvio è il modo italiano di affrontare i problemi, fino a che non si trasforma in rimpianto.
Del resto, a essere seri, né l’abolizione delle Province né la diminuzione dei parlamentari risolve il problema di fondo, guarisce il cancro che ha divorato l’Italia: lo strapotere della politica, la pervasività dei partiti in ogni ganglio della vita civile ed economica, la moltiplicazione delle leggi, dei regolamenti e dei divieti, e insomma la gigantesca sovrastruttura politico-burocratica che si nutre di risorse pubbliche allo scopo prevalente di dissiparle. Quello che l’apparato statale non riesce a proibire, rende impossibile a colpi di decreti, procedure, controlli. La corruzione, in un sistema del genere, è come il pedaggio che si paga su un’autostrada che abbiamo già finanziato con le nostre tasse: è un piccolo furto sulla sommità di una gigantesca rapina.
I conti dello Stato guarirebbero d’incanto se lo Stato rinunciasse a se stesso: meno leggi, meno burocrazia, meno funzionari, meno assistenzialismo, meno governo. Tra l’altro, l’inutilità dei governi è diventata lampante, e persino ridicola, al cospetto della grande tempesta finanziaria. Senza governo (con un governo minimo) vivremmo tutti più felici, più sereni e più ricchi. Suonerà pure come un’utopia, ma è l’unica cosa ragionevole da fare, e ragionevolmente prima o poi accadrà.
Nel frattempo, è ora di lanciare una grande campagna popolare per la privatizzazione della politica. Che in poche parole significa questo: chiunque abbia un incarico elettivo da oggi non prende neppure un euro di stipendio. Che sia consigliere di circoscrizione o ministro, parlamentare o presidente della Repubblica, sindaco di Roma o governatore della Lombardia o primo ministro, nulla gli sarà dovuto dallo Stato e dalla collettività. Né stipendio, né pensione, né rimborsi, né “gettoni”. Zero.
Non è una proposta qualunquista ma, proprio al contrario, è un atto d’amore verso la politica: è il tentativo di salvarne in articulo mortis la nobile funzione, riportandola a ciò che è sempre stata, nell’Atene democratica di Pericle come nell’America rivoluzionaria di Jefferson: un servizio alla collettività per consentirle di vivere meglio.
I vantaggi della privatizzazione, a parte il colossale risparmio per i contribuenti, sono molti: tornata ad essere volontariato, la politica recupererebbe così lo spirito di servizio che originariamente le appartiene; soltanto le persone davvero motivate accetterebbero di limitare o rinunciare alla professione che svolgono per assumere una carica elettiva; non ci si candiderebbe per avere uno stipendio o una pensione; la rotazione e il ricambio sarebbero assicurati, perché ragionevolmente la maggior parte degli eletti tornerebbe alle proprie attività dopo uno o due mandati, e nessuno parlerebbe più di ‘casta’; la selezione avverrebbe assai più in base al merito che alla fedeltà al capocorrente; le riunioni delle varie assemblee sarebbero più brevi, le discussioni più stringate, i provvedimenti meno ridondanti.
I partiti, naturalmente, potrebbero decidere di stipendiare gli eletti alle cariche più importanti, ma anche in questo caso senza costi per la comunità: abrogata ogni forma di finanziamento pubblico (compresi i rimborsi elettorali e le sovvenzioni ai giornali di partito), i movimenti politici saranno finanziati volontariamente e personalmente dai cittadini, attraverso un nuovo otto per mille o con contributi fiscalmente deducibili.
Storicamente, finanziamento pubblico ai partiti e stipendio agli eletti nascono nel Novecento per consentire a chiunque, all’operaio e non soltanto all’imprenditore, di fare politica attiva. Giusto o sbagliato che fosse, è un sistema che non ha più ragione di esistere. Perché le forme di (auto)finanziamento sono oggi molto più numerose e flessibili, perché con una semplice connessione a internet si può organizzare una rivoluzione, e perché i contributi pubblici nel corso del tempo non hanno fatto altro che ingigantire i partiti e accrescerne la fame di denaro.
Il fund raising non per caso è un aspetto centrale della democrazia americana: prima di conquistare il voto di milioni di elettori, il candidato deve conquistare il portafoglio di alcune migliaia di loro. È il primo test di fiducia cui si sottopone, ed è cruciale: senza finanziatori, il candidato si ritira. C’è una profonda saggezza democratica in questo modo di comportarsi: se non riesco a convincere i miei sostenitori a darmi un po’ di soldi, come posso sperare di convincere chi non mi conosce neppure a votarmi?
La politica in Italia s’è abituata ad una rendita di posizione paragonabile a quella dell’aristocrazia nell’ancien régime: è invasiva, onnipotente, corrotta, irresponsabile. Pretende di occuparsi di tutto, ma in realtà non fa nulla. Dissipa risorse immense in un processo entropico che ha come unico scopo l’autoperpetuazione della casta. Privatizziamola, sottoponendola come ogni altra attività umana alla logica liberale del mercato, e ne verranno benefici per tutti.