di ALESSANDRA POGGI
Il fallimento di un’entità statuale viene solitamente determinata dall’assenza di un Governo centrale che detenga il controllo del territorio e dalla mancanza dei più elementari sevizi pubblici. A questi elementi si aggiungono flussi migratori involontari, presenza diffusa di rifugiati, corruzione, criminalità e pessime condizioni economiche.
La fine della Guerra Fredda ha cambiato profondamente il contesto strategico globale, spaccando i blocchi in cui era suddiviso il mondo fino al 1989 e inaugurando quella fase di rapporti di forza asimmetrici che dura tutt’ora. All’indomani del crollo del regime bipolare, il nazionalismo esasperato ed estremista si è ripresentato con eccezionale virulenza, proprio in un momento storico caratterizzato da forti insicurezze sulle sorti dell’ordine mondiale. Soprattutto, ne sono risultati coinvolti Paesi del Terzo Mondo o comunque quelli in cui lo state building non aveva raggiunto uno stadio avanzato, come la Somalia. In questo contesto, agli scontri tra eserciti nazionali, ai quali eravamo abituati, sono subentrate manifestazioni di violenza su larga scala, perpetrate sulla popolazione civile e spesso sottratte al monitoraggio e all’intervento della Comunità Internazionale in quanto interne ad uno Stato sovrano.
Attualmente, la Somalia è l’esempio più drammatico di Stato i cui apparati non hanno saputo mantenere l’ordine, pacificare gli integralismi di tipo nazionalistico e i conflitti di interesse creatisi nella regione in seguito alla caduta del muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda. In particolare la Somalia è un Paese che molte parti viene considerato fallito. Dal 1991 è piombato in una guerra civile, cui la Comunità Internazionale ha provato inutilmente e ripetutamente a porre termine. Dal 2000, la Conferenza di Gibuti e quella di Nairobi hanno inizializzato un processo di conciliazione di cui ancora è molto difficile prevedere una fine definitiva. Dopo la Conferenza di Nairobi, nel 2004, è stata adottata la Transitional Federal Charter che ha ufficialmente segnato la nascita del Transitional Federal Government (TFG). Questo nuovo Governo è stato riconosciuto dalla maggior parte dei membri della Comunità Internazionale ma non ha tutt’ora il controllo del territorio e vi sono molteplici forze che si contrappongono al processo di pacificazione del Paese. Ad esempio, il Governo separatista del Somaliland non riconosce il TFG e controlla parte del Paese in completa autonomia. Alle entità territoriali con velleità indipendentiste si aggiungono le corti islamiche riunite politicamente (a partire dal 2000) sotto la bandiera dell’Islamic Courts Union (ICU) che hanno come scopo non il controllo del territorio, ma piuttosto il controllo della popolazione e l’instaurazione della sharia. Parallelamente, nel 2006 nel Paese si è costituito un gruppo terroristico di matrice islamica – Al-shabaab – che sempre più si sta accreditando come braccio armato di Al-Qaeda in Africa orientale.
L’attuale sistema politico somalo è dunque caratterizzato dalla mancanza di un Governo centrale capace di imporre il proprio potere, dalla frammentazione politica in clan desiderosi di controllare il territorio d’appartenenza e dalla presenza di formazioni religiose militanti che stanno approfittando del vuoto di potere per imporre la propria autorità.
La profonda crisi che coinvolge il Paese da ormai vent’anni ha condotto le Nazioni Unite a delegare all’Unione Africana il dispiegamento e la conduzione dell’operazione di peacekeeping African Union Mission to Somalia (AMISOM) per consentire al Paese di ristabilire una condizione accettabile di sicurezza che favorisca il processo di riconciliazione nazionale. Pochi Stati africani, tuttavia, sono stati disposti a dispiegare truppe a Mogadiscio soprattutto a causa degli elevati rischi della missione. Attualmente partecipano solo Uganda e Burundi forniscono un contingente di circa 6.000. La scadenza del mandato ONU è prevista per il 31 gennaio 2011 e più volte i governanti dell’Africa orientale hanno chiesto alle Nazioni Unite di prendere il posto dell’Unione Africana. Attualmente il controllo del territorio da parte del Governo centrale e dei caschi verdi è limitato ad alcuni quartieri della capitale somala. Al di fuori di Mogadiscio, il caos regna in quasi tutto il sud e il centro del Paese.
Tuttavia, il contesto profondamente critico che caratterizza gran parte della Somalia sembra non aver per ora intaccato la stabilità di cui ancora gode la regione autonoma del Puntland. Dalla sua costituzione nel 1998, il Puntland ha sempre cercato di trovare un’alternativa alla devastante guerra civile che continua a stravolgere il resto del Paese, pur rimanendo parte, della Federazione. La regione si è dotata di istituzioni di pubblico servizio, di strutture economiche e sociali che potrebbero renderla un’ottima base di partenza qualora la Comunità Internazionale decidesse di impegnarsi a fondo per ripristinare lo Stato di diritto e la pacifica convivenza nella martoriata Somalia.
In definitiva, un’iniziativa diplomatica coerente e continuativa potrebbe riportare la stabilità in un periodo relativamente breve. Tuttavia, il perdurare della crisi è causato da cause endogene ed esogene che non fanno altro che frammentare ancora di più il Paese. La causa endogena è data dal continuo contrasto tra poteri locali e potere statuale nazionale, ancora troppo debole per imporsi. La causa esogena è radicata nell’eredità coloniale, che ha tracciato confini regionali provvisori e considerati ingiusti in quanto spaccano a metà comunità omogenee, come nel caso dell’Ogaden. In questo caso, le dispute territoriali tra Eritrea, Etiopia e Somalia si riflettono nel conflitto interno somalo e lo amplificano rendendolo pressoché ingestibile. Parimenti, sempre dall’esterno si è avuta l’importazione di un modello teocratico che, se da una parte ha rappresentato inizialmente una speranza di normalizzazione (e per questo ha incontrato il favore della popolazione) dall’altra ha imposto regole di vita estranee alla cultura tradizionale somala e alla lunga mal sopportate dalla popolazione. Infine, la stessa presenza del contingente AMISOM, se da un lato è utile a stabilizzare la capitale e fornire credibilità al Governo di transizione, dall’altro acuisce l’acredine della popolazione verso le presenze esterne.
L’attuale contesto somalo è dunque complesso e pericoloso e rischia di allontanare dannosamente l’interesse e l’impegno della Comunità Internazionale e africana. Al contrario, mai come adesso la Comunità Internazionale dovrebbe impegnarsi per la stabilizzazione della Somalia soprattutto con l’indispensabile aiuto della popolazione, che ogni giorno lotta contro la fame e la sofferenza e che rischia di soccombere in breve tempo agli stenti a cui per troppo tempo è stata sottoposta.
L’azione diplomatica abbinata a strumenti economici e sociali – progetti di sviluppo locale, micro-finanziamenti, sostegno all’associazionismo, programmi di aiuto alimentare correlati alla frequenza scolastica e finanziamento dei media indipendenti – potrebbero conseguire successi significativi e duraturi, come avvenuto in altre parti dell’Africa (Mozambico, Liberia).
Sebbene questo approccio imponga una conoscenza capillare del territorio e richieda logiche di medio e lungo periodo, non è più possibile ritardare una presa di posizione nei confronti della Somalia. La situazione del Paese richiede coerenza e continuità dello sforzo, due qualità che troppe volte nell’approcciare questa crisi sono venute a mancare. In effetti, l’attuale situazione somala, ove sottovalutata, rischia di incendiare una porzione di Africa fondamentale per la stabilità dell’intero Corno d’Africa.
La Perigeo International da anni lavora nel Corno d’Africa, impegnata in numerose umanitarie, culturali e di peacebuilding. Le azioni intraprese sono accompagnate da attente analisi della situazione politica, economica, sociale e antropologica delle regioni in cui l’associazione interviene. Inoltre, l’esperienza accumulata in zone dell’Etiopia particolarmente caratterizzate da forti tensioni interetniche e la profonda conoscenza della macroregione di cui la Somalia fa parte, stanno permettendo alla Perigeo International di promuovere attività di cooperazione e peacebuilding anche nella regione somala del Puntland.
In particolare, la Perigeo International ha preso in considerazione la regione in oggetto per una serie di motivi:
– l’amministrazione del Puntland ha saputo mantenere la pace dal 1998 ad oggi, instaurare lo Stato di diritto e l’ordine sociale, promuovere l’economia e mantenere la stabilità della regione;
– pur promuovendo strutture moderne di governo sul modello degli Stati democratici, le figure di leadership tradizionali dei clan hanno mantenuto l’autorità tradizionale e conservano ruoli importanti nei processi di risoluzione delle controversie, inclusa quella territoriale con il vicino Somaliland. Tale caratteristica è un importante indice di equilibrio tra le istituzioni statali moderne e le tradizioni culturali somale;
ü le relazioni del Puntland con l’Etiopia sono buone e includono attività di cooperazione diplomatica ed economica. Tali rapporti contribuiscono a stabilizzare la regione ed a allontanare il pericolo dell’espansionismo pan-somalo nei confronti del potente vicino;
– le attività di pubblico servizio e la stabilizzazione della situazione politica ed economica nel Puntland hanno contribuito ad evitare la diffusione dell’integralismo islamico e l’instaurarsi di cellule terroristiche, nonché a conservare la tradizione religiosa somala caratterizzata da un Islam moderato con numerose influenze sufi;
– Il Puntland collabora con le principali Organizzazioni Internazionali per il processo di conciliazione del Paese e partecipa alle numerose riunioni sul tema che si tengono regolarmente nel Djibouti.
La Somalia viene definita uno Stato fallito, da tre anni il più pericoloso al mondo. Tuttavia, un’analisi più attenta rivela l’esistenza di una regione, il Puntland, che ha saputo ripristinare e mantenere la pace in un contesto estremamente critico, pur rimanendo parte della federazione Somala. Esso è un esempio di come la popolazione locale si sia organizzata in una struttura che coinvolga le tradizioni claniche e le istituzioni moderne. Un modello da studiare, adattare e possibilmente esportare al resto del Paese.
Una speranza per la Somalia e per l’intero Corno d’Africa.
*(Perigeo International Onlus (www.perigeo.org)
Pubblicato su Area del gennaio 2011