di LIVIO GHERSI
Leggo sempre volentieri quanto scrive Davide Giacalone, anche perché mi ricordo di lui quando era Segretario nazionale della FGR (la Federazione giovanile repubblicana) e so, quindi, che la sua formazione politica non è troppo distante dalla mia. Fermo restando che la cultura liberal-democratica abbraccia così tanti autori da poter essere interpretata in molti modi; e senza dimenticare che la semplice circostanza di avere io qualche anno in più si traduce nell’aver fatto esperienze diverse. C’è, infine, un non trascurabile dettaglio che soltanto i conoscitori delle vicende della cosiddetta “prima Repubblica” possono intendere: non ho mai fatto parte del PRI. Ho sempre preferito definirmi liberale e, molti lustri fa, sono stato attivista della GLI (la Gioventù liberale italiana). I rapporti tra liberali e repubblicani sono sempre stati né troppo cattivi, né troppo buoni; come tra “cugini” che non ignorano il tanto che li accomuna, ma preferiscono non frequentarsi assiduamente, per non lasciar prevalere differenze caratteriali che, se non tenute sotto controllo, porterebbero all’insopportazione reciproca.
In estrema sintesi: da Benedetto Croce in poi, i liberali hanno sempre dato più importanza all’esigenza di definirsi dal punto di vista degli ideali in cui credono; i repubblicani, da Ugo La Malfa in poi, sono sempre stati più pragmatici: concretezza, programmi realistici, nessuna astrattezza ideologica. Alle origini della storia italiana, ossia ai tempi di Cavour e Mazzini, le parti erano esattamente rovesciate: realisti e pragmatici erano i liberali cavouriani e tali sono rimasti fino a Giovanni Giolitti; mentre alfieri della intransigenza ideale erano i mazziniani. Anche Carlo Cattaneo non scherzava quanto ad intransigenza nel difendere l’idea repubblicana.
La premessa serve a spiegare che non ho alcunché di personale contro Giacalone; eppure, sento di dover replicare ad un suo recente articolo, in cui sostiene tesi che, dal mio punto di vista, sono, non soltanto sbagliate, ma pure pericolose per l’impressione che l’opinione pubblica può trarne. Mi riferisco all’articolo, prima pubblicato dal quotidiano “Il Tempo”, riportato da “Il Legno Storto”, nell’edizione del 30 gennaio 2011, con il titolo “Immobilismo cautelare”.
Giacalone commenta un’inchiesta giudiziaria che vede imputati soprattutto funzionari, sia dello Stato, sia della Regione Campania. Funzionari che hanno avuto responsabilità di vertice, o comunque ai più alti livelli, nella Protezione Civile, nell’ex Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, nel Ministero dell’Ambiente, in una struttura dell’Amministrazione della Regione Campania che dovrebbe sovrintendere al “ciclo integrale della depurazione delle acque”. Tra le accuse che i giudici dovranno valutare, c’è pure quella che i predetti funzionari avrebbero consentito che, nel periodo temporale 2006-2009 il percolato, ossia quel liquido immondo che si forma quando i rifiuti non sono trattati in modo adeguato e sono lasciati marcire nelle discariche, fosse eliminato gettandolo in mare. Nel mare del Golfo di Napoli e del Golfo di Salerno!
A me sembra un’accusa gravissima; al cui confronto il recente crollo nell’area archeologica di Pompei è una bazzecola. Il buon Dio aveva concentrato in quella zona geografica bellezze naturali e paesaggistiche di incomparabile pregio. Politici, amministratori e funzionari del XXI secolo non trovano soluzione tecnica più adeguata che prendere il percolato e farlo finire, così com’è, in mare. Certo, una misura ben pensata per incoraggiare le attività turistiche; aumenta l’attrattiva della balneazione! Certo, un’iniziativa ben pensata per promuovere la pesca; immaginiamo i benefici effetti per la salute di quanti mangiano pesce, o degustano le cozze coltivate nella zona!
Criminale non è soltanto chi commette omicidio. E’ troppo facile dire: ma sì, in fondo, non ha ucciso nessuno. Nelle condizioni attuali di degrado ambientale, chi inquina il mare, ossia la fonte della vita, chi inquina le acque potabili, commette un crimine molto più grave e pericoloso, dal punto di vista dei danni per la comunità sociale, di chi abbia versato sangue umano. Perché dal suo comportamento non discende la morte di una singola persona, ma derivano malattie, dolore, povertà, morte, per un un numero indeterminato e potenzialmente molto alto di persone.
Giacalone non soltanto non s’indigna, ma quasi giustifica: “Gli uomini al servizio dello Stato, un prefetto e il personale della protezione civile, avranno anche sbagliato, ma se fossero stati disponibili luoghi e modalità per fare sparire il tutto, nel rispetto formale e sostanziale della norma, semplicemente si sarebbe dovuto mandare al manicomio quanti non avevano provveduto prima. Hanno agito, quindi, in condizioni d’emergenza”.
Si tratta della consueta sottovalutazione del problema dei rifiuti; sottovalutazione che, negli ultimi decenni, ha indotto gli amministratori, soprattutto meridionali, ad appaltare di fatto la gestione dei rifiuti alla criminalità organizzata. Bisognerebbe rovesciare completamente il punto di vista e rendersi conto che, nel 2011, il livello di civiltà di un Paese si misura in primo luogo dal modo in cui è capace di organizzare la raccolta, il trattamento, il possibile riciclo, e lo smaltimento definitivo dei rifiuti. Una gestione dei rifiuti rispettosa del territorio e della salute dei cittadini richiederebbe forti investimenti in tecnologia, nella ricerca applicata, nella formazione di tecnici ed operai altamente specializzati. Tutte cose che hanno un costo, ma da cui poi si avrebbe un ritorno economico, anche dal punto di vista della creazione di occupazione stabile; soprattutto, si avrebbe un salto di civiltà in termini di miglioramento della qualità della vita dei cittadini.
Invece, andiamo avanti con l’affidamento della gestione dei rifiuti a cooperative, a società, comunque denominate, che hanno la caratteristica di essere soltanto per finta private, perché il personale è reclutato al novanta per cento con logiche di lottizzazione politica. Gli operatori ecologici lottizzati sanno che il loro compito primario è impegnarsi nelle attività proprie dei galoppini dei vari candidati “segnalati dagli amici” nelle diverse, immancabili, consultazioni elettorali, piuttosto che doversi effettivamente occupare della raccolta della spazzatura. Quella è soltanto la copertura. Per quanto riguarda il rispetto delle normative vigenti, che problema c’è? Tutto si risolve in un fatto cartaceo; basta avere documenti teoricamente perfetti, con tutti i timbri a posto.
C’è una seconda questione, rispetto alla quale il mio dissenso è radicale: il modo di intendere il compito dei funzionari e delle pubbliche amministrazioni in genere. Giacalone conclude il suo articolo, scrivendo: “Quindi, la (im)morale di questa storia è: il burocrate faccia il burocrate, si trinceri dietro la mezza manica e se ne freghi delle conseguenze per gli altri, quel che conta, per lui, è solo il rispetto scrupoloso, maniacale e immobilista di tutte le norme e regolamenti. Si blocca tutto, ma la procura non verrà a svegliarti e ammanettarti”.
Qui si ripropone una concezione tipica dei liberisti più spinti e degli anarco-capitalisti: a che servono le pubbliche amministrazioni? Sono solo d’impaccio, meglio se non ci fossero. In ogni caso, per i liberisti più spinti, va attaccato il principio di legalità dell’attività amministrativa, la cui applicazione creerebbe soltanto ritardi e sarebbe pretesto per non fare.
Ricordo che, all’università, studiai economia politica su un buon testo: “Introduzione all’economia” di Richard George Lipsey (un migliaio di pagine, per i tipi di Etas). Ho sempre presente questo esempio fatto da Lipsey. Immaginiamo un’azienda costruita vicino al letto d’un fiume. Se l’imprenditore dota la sua azienda di filtri e depuratori, secondo le normative vigenti, avrà un costo privato molto alto. Viceversa, se scarica liberamente i propri detriti industriali nel fiume, il suo costo sarà zero (a meno che non debba corrompere qualche pubblico funzionario affinché si distragga). Tuttavia, il perseguimento del puro interesse dell’imprenditore si traduce in un alto costo per la collettività, determinato dall’inquinamento ambientale. Di conseguenza, scopo dei pubblici poteri è quello di salvaguardare il bene comune, impedendo che l’operatore privato trasformi i propri costi privati in costi sociali.
L’esempio mi pare calzante e, personalmente, aggiungo il corollario che, in uno Stato ben funzionante, quell’imprenditore dovrebbe pentirsi amaramente dei danni causati alla comunità: non soltanto attraverso il carcere, ma anche con sanzioni economiche fortissime, effettivamente adeguate al valore dei danni arrecati, e, in caso d’insolvenza, con la confisca dei suoi beni, con possibilità di rivalersi pure sui suoi eredi ed aventi causa.
La questione mi sta particolarmente a cuore perché anch’io sono stato un pubblico funzionario. So bene, quindi, che un funzionario potrà facilmente fare carriera e ottenere vantaggi di ogni tipo, se si presta a risolvere prontamente i problemi che i politici gli chiedono di risolvere; tanto più se si tratta di non agire secondo le regole della correttezza amministrativa e di fare il “lavoro sporco”. Ma il pubblico funzionario che pensi più alla propria coscienza che alla propria carriera, può anche mettersi di traverso e, nelle questioni più serie, dare effettivamente del filo da torcere ai propri superiori, burocratici e politici, accettando ovviamente di pagarne il prezzo.
Non so se il Ministro semplificatore, Calderoli, o il Ministro ultra-riformatore, Brunetta, abbiano già provveduto a far abrogare una disposizione che, secondo me, andrebbe valorizzata al massimo nel quadro di una effettiva e seria riforma della pubblica amministrazione. L’articolo 17 dello statuto degli impiegati civili dello Stato, rubricato “Limiti al dovere verso il superiore”, così recita: “1. L’impiegato, al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le ragioni.
2. Se l’ordine è rinnovato per iscritto, l’impiegato ha il dovere di darvi esecuzione.
3. L’impiegato non deve comunque eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale”.
La prima cosa che un pubblico funzionario può fare, per difendersi da una richiesta “sconveniente”, è quella di chiedere, anzi di pretendere, che l’ordine sia messo per iscritto. Il che già abbatte del cinquanta per cento le richieste “sconvenienti”. Qualora poi si incontrasse un superiore, o un politico, tanto cretino da richiedere per iscritto un comportamento che integra una fattispecie di reato, il funzionario non dovrebbe fare altro che prendere quel documento e portarlo alla più vicina Procura della Repubblica.
Non si pensi che le norme del Testo Unico “delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato” siano ispirate da furore ideologico sessantottino. Sono state approvate con Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e rispecchiano una saggezza amministrativa molto risalente nel tempo. Quando, appunto, il principio di legalità dell’attività amministrativa era apprezzato come massimo bene in uno Stato di diritto e si concepivano i funzionari pubblici come se ciascuno, singolarmente, ovviamente nei limiti delle proprie attribuzioni e competenze, fosse custode dell’ordinamento giuridico.
Si intende che gli attuali innovatori e riformatori si fanno beffe del principio di legalità; per loro contano soltanto l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. La cosa strana è che il loro modo di intendere l’efficacia è quello che i funzionari obbediscano senza indugi agli ordini superiori. I burocrati sommamente efficaci sono i camerieri dei politici. O quanti fanno affari con loro. Io, che sono della vecchia scuola, non ritengo che buttare l’immondo percolato nel Mar Tirreno sia una dimostrazione di efficacia amministrativa. Né mi sembra un peccato veniale.