di GDM
L’incontro rientra nella serie dedicata alla “Competizione nel mondo globale – aree sensibili e interessi italiani”. Relatori sono stati Roberto Aliboni, dell’Istituto Affari Internazionali, Roberto Iannuzzi dell’Unione Università del Mediterraneo e il giornalista Antonio Picasso. Ha presieduto Franco Chiarernza.
Chiarenza: l’incontro fa parte di una serie sulla competizione nel mondo globale; si vuol guardare nei paesi per vederne la prospettiva dal punto di vista dei nostri interessi nazionali. Oggi si parla di Egitto e Libia perché ci sono di fronte ma essi sono realtà diversissimi; l’Egitto è un paese molto popolato, ha una storia millenaria e un’agricoltura sviluppata già ai tempi dei romani quando era il granaio d’Europa; la Libia è invece poco popolata, ha un’agricoltura povera e il petrolio come risorsa principale. Anche il colonialismo che ha contrassegnato entrambi i paesi è stato molto diverso. L’Egitto ha sempre avuto una sua struttura autonoma e una monarchia che amministrava il paese anche nel periodo del protettorato inglese. Non è stato così per la Libia che divenne colonia italiana al tempo dei governi liberali, in un periodo nel quale l’espansione coloniale rientrava nel DNA culturale di tutti i paesi europei. Ora di questo colonialismo ce ne possiamo scandalizzare e ci possono chiedere di pentircene ma non dobbiamo farcene una colpa perché allora non lo era affatto: ogni fenomeno va visto nel tempo in cui si realizza.
Aliboni: Egitto e Libia pur vicini hanno poco in comune sia nel loro assetto interno che nello stile di governo, nell’approccio ai problemi sociali e nelle relazioni internazionali. Noi abbiamo con essi forti interessi sia storici che culturali ed economici; ne abbiamo di più che con altri paesi dell’occidente arabo come Tunisia e Algeria. In Egitto c’è stata una forte comunità italiana fin dall’800 ma oggi abbiamo rapporti più importanti con la Libia. Il legame che abbiamo con questi paesi è duplice; uno nazionale e uno nel quadro dell’Unione Europea. Dal punto di vista politico i rapporti sono floridi ma un po’ problematici, non tanto sul piano bilaterale quanto sul piano complessivo. I paesi del Sud Europa, che si sono sempre occupati di stabilire e mantenere rapporti con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, hanno avuto un comportamento un po’ schizofrenico: in passato, in particolare tra il 1995 e il 2000 ne criticavamo i regimi autoritari e chiedevano che in questi paesi avvenissero riforme per più diritti umani, più libertà e più democrazia puntando ad ottenere nel lungo periodo sviluppo e stabilità; poi, dopo l’attacco alle torri gemelle, questa preoccupazione, pur rimanendo atto declaratorio a livello europeo, è stata abbandonata a livello bilaterale a favore – e questo vale per tutti i paesi dell’Unione Europea, con la Francia precorritrice – di una maggior preoccupazione per la stabilità dei loro regimi e per una cooperazione in tema di antiterrorismo e freno all’emigrazione clandestina. Ne sono prova esplicita le dichiarazioni del ministro Frattini che di fronte alle recenti sollevazioni popolari in Tunisia ha detto che bisogna andarci piano con gli entusiasmi di questa che non sappiamo se è una rivoluzione o un moto che non riesce a trovare una sua canalizzazione politica. Frattini ha sottolineato che il nostro interesse è innanzitutto nella stabilità di questi regimi. Sembra che i regimi dittatoriali, purché ci garantiscano stabilità, ci stiano bene così. A favore dei diritti umani è cessata, a livello nazionale, anche la semplice attività declaratoria. Si protesta per quello che è stato fatto ai copti ma si sostiene chi non è stato capace di evitare quel che è successo. È clamoroso il divario tra una politica basata sulla trasformazione in senso democratico di questi paesi ed una politica che dice che questi regimi pur non gradevoli ci fanno comodo. Questa situazione contraddittoria tra Unione Europea che sostiene le riforme e i governi nazionali che propendono alla stabilità anche ad un prezzo molto alto può anche essere segno non tanto di schizofrenia quanto di una crescente rinazionalizzazione della politica europea che ha gradualmente abbandonato le sue promesse di integrazione politica eleggendo un ministro degli esteri europeo che sembra abbia come compito quello di distruggere quel poco che ha fatto Solana. Ma dobbiamo auspicare questo tipo di stabilità cui tendono i governi nazionali dei paesi europei?
Iannuzzi: Quello che è avvenuto in Tunisia mostra che questi regimi non sono in grado di garantire la stabilità. Disordini e dimostrazioni in Algeria avvengono periodicamente da anni. La stessa cosa vale per l’Egitto dove la situazione è socialmente drammatica: la gran parte della popolazione vive in grande povertà, c’è disoccupazione galoppante e sottoccupazione; chi lavora guadagna 30 dollari al mese e anche meno; nella società c’è frammentazione e sfilacciamento e le intolleranze religiose sono un sintomo di qualcosa di più grave: la crisi di una struttura sociale e politica. Per capire questa situazione dobbiamo risalire all’ultima storia di questi paesi, da quando essi raggiunsero l’indipendenza. In Libia l’indipendenza c’è stata nel ’51 e in Egitto anni prima ma in entrambi i paesi si è realizzata sotto una monarchia. Dal punto di vista degli arabi però la vera indipendenza viene raggiunta quando queste monarchie crollano e si diffonde l’ideologia del nazionalismo panarabo, il sogno di una unità di tutti gli arabi dal Marocco alla penisola araba. Questo sogno nasce in Egitto nel ’52 con la rivoluzione degli ufficiali guidata da Nasser e da lì si diffonde in tutto il mondo arabo; anche il colpo di stato del ’69 guidato da Gheddafi in Libia avviene in questo clima di speranza panaraba. Quando crollano queste monarchie che sono ancora residui della precedente situazione storica e del colonialismo, per distinguersi dalla precedente realtà si affermano strutture improntate ad uno modello socialista. Questi paesi diventano ostaggio della guerra fredda e molti finiscono nell’orbita del blocco comunista anche se ad esempio la Libia ha preteso di avere una terza via equidistante da comunismo e capitalismo. Questa situazione cambia con la fine del blocco comunista; per l’Egitto anche prima, nel ’79, quando ci fu la firma del trattato di pace con Israele, l’Egitto diventa alleato degli USA e Sadat introduce cambiamenti economici. In Libia i primi sintomi di questa riconversione si ebbero intorno al 2000 quando Gheddafi capì di non poter sopravvivere in una situazione di isolamento internazionale e consegnò i presunti responsabili dell’attentato di Lockerbe; condannò poi gli attentati dell’11 settembre e nel 20003 dichiarò che la Libia rinunciava a qualsiasi programma di armi di distruzione di massa. Bush tolse le sanzioni nel 2004, si stabilirono rapporti tra Libia ed UE e Gheddafi tentò di aprire il paese all’economia internazionale. In Egitto la riconversione economica avvenuta tempo prima non ha risolto i problemi del paese perché la liberalizzazione economica è avvenuta mantenendo un regime che ha continuato a monopolizzare il potere non solo politico ma anche economico. L’Egitto rappresenta un paradosso: pur con tassi di crescita elevati (6-7%) le sacche di povertà sono aumentate: prima c’era un regime socialista che si preoccupava di fornire quanto meno servizi essenziali alla popolazione ma l’introduzione di un capitalismo senza regole ha creato monopoli di grandissima ricchezze in mezzo a un mare di povertà. Il problema della stabilità di questi paesi visto come contrapposto alla democratizzazione è un falso problema; essi non garantiscono la stabilità. C”è poi un problema di successione. Nell’agosto 2011 in Egitto ci saranno le elezioni; potrebbe ripresentarsi Mubarak ma come successore si parla del figlio Gamal che rappresenta la nuova classe imprenditoriale del paese ma che è inviso alla vecchia classe statalista e conservatrice: ci sarebbe per la prima volta un presidente non espressione dell’esercito. Non è escluso però che in questi paesi il cambio di regime avverrà solo alla morte di Mubarak e di Gheddafi. In questo caso ci sarà un grosso punto interrogativo perché non c’è nessuna regola prestabilita di successione; e allora può avvenire qualunque cosa.
Picasso: per quale motivo alla caduta del muro di Berlino eravamo così entusiasti per il sopraggiungere della democrazia nell’Europa dell’est ed ora siamo così preoccupati di un’eventuale democrazia nei paesi della Lega Araba? Certo questi paesi da un punto di vista di evoluzione politica sono più arretrati; esempi di democrazia erano presenti nei paesi dell’est Europa ma mancano nei paesi del nord Africa; ma non possiamo insistere sulla necessità della democrazia e quando questa comincia ad realizzarsi mostrare preoccupazione ed avversione. È certamente possibile un effetto domino in questa regione ma se non ci muoviamo a favore della democrazia è possibile che alla caduta di questi regimi si avverino i nostri timori con l’avvento di altre forme di fondamentalismo. Certamente Gheddafi sta cercando di prevenire l’effetto domino sulla regione: pochi giorni fa ha abrogato i dazi imposti sui generi alimentari sperando di evitare una ripercussione dei moti di piazza di Tunisia ed Algeria. L’Egitto è fonte di maggiore attenzione perché è una potenza regionale, ha fondato la Lega Araba, è l’interlocutore che ha da sempre garantito una certa affidabilità e stabilità politica sociale ed ed economica e con il quale ci confrontiamo da circa 60 anni. Nasser diceva che l’Egitto è l’Egitto, tutto il resto è una massa di beduini con bandiere. Si poteva vantare di avere alle spalle una civiltà di qualche migliaio d’anni; gli altri no. In questo momento la situazione è preoccupante, anzi ci si meraviglia che i primi moti ci siano stati in Tunisia e in Algeria invece che in Egitto. A marzo il governo egiziano ha tagliato per necessità i fondi a favore dei sussidi alla parte più debole della popolazione, sussidi che assorbivano il 40% del PIL nazionale. In tale situazione un Paese deve trovare una via d’uscita. Per la eventuale successione si è fatto il nome di Gamal Mubarak ma come possibile interregno tra i Mubarak padre e figlio è possibile anche la soluzione Al Baradei; egli garantirebbe stabilità nel Pese e continuazione del regime. Al Baradei è persona di spessore, benvoluto da una società urbana egiziana che sta maturando ed è stimato all’estero. In Egitto la comunità cristiana poteva benissimo essere un interlocutore valido dell’Occidente ma si è indebolita per due ragioni: l’incremento demografico delle comunità mussulmane che ha percentualmente ridotto la comunità copta dal 20% di anni fa ad un attuale 10-11%, e il continuo frazionamento della comunità copta. Non va dimenticato che Butrus Gali, uomo del regime e a suo tempo segretario generale dell’ONU, era copto. In ogni modo in Egitto i copti sono ancora una forza influente, anche dal punto di vista economico.
Le domande del pubblico
Gazzani: Quale vantaggio si può avere con il passaggio alla democrazia che non è un bene in sé ma un bene in quanto porta altre cose?
Velonà: Al Baradei è noto a pochi ma è stato per anni uno stimato direttore generale dell’Agenzia nucleare dell’ONU a Vienna; il fatto che Butrus Gali fosse un cristiano e che per Al Baradei, mussulmano, si parli di una possibile presidenza dimostra che il passaggio delle leve del potere da una religione all’altra sia possibile.
Rizzi: Per quanto riguarda Al Baradei sono poco d’accordo che possa diventare presidente dell’Egitto; non so chi rappresenti. Si è parlato molto dei rapporti con la riva sud del Mediterraneo pensando o fantasticando su quali debbono essere i vantaggi per l’Europa e per l’Italia come se questo clima colonialista non fosse ancora finito. Bisogna rendersi conto che il processo storico è un processo che mostra come tutto il nodo del post colonialismo non è stato ancora risolto. Che Frattini dica che in Libia ci sia una forma democrazia perché i bisogni del popolo sono esauditi dal capo mi sembra grave. Che ci sia una real politik da seguire non c’è dubbio ma questa si deve chiamare real politik: commerciamo con i dittatori, con chi non rispetta i diritti umani, e con chi vogliamo, ma questo non è ne salvaguardia dell’Europa dal terrorismo né stabilità. Se non abbiamo capito che il processo post coloniale non è finito noi non abbiamo capito niente della situazione. Noi non ci rendiamo conto che in questi paesi è come se si camminasse lungo una strada piena di benzina pronta a prendere fuoco. La Tunisia non ha preso fuoco solo per il pane e per gli aumenti che ci sono stati; la Tunisia era un tappo. Chi ha frequentato questi paesi sa che le classi politiche che hanno governato questi paesi, sempre molto conformi ai vantaggi dell’Europa, andavano bene. Io non sono contrario alla real politik, sono contrario al fatto che le parole, man mano che si va avanti, nella bocca dei politici italiani ed europei diventano sempre una cosa diversa.
Lo Foco: l’Egitto è economicamente dipendente dagli aiuti che riceve dagli americani; a prescindere dal se lì ci saranno elezioni libere e da chi sarà eletto, possiamo ignorare questo forte condizionamento americano?
Cecconi: l’errore dell’Europa è quello di predicare i propri modelli politici a paesi che hanno culture e tradizioni storiche che dai quei modelli sono lontanissimi. Gheddafi, dal punto di vista della real politik è il meno peggiore degli alleati che l’occidente capitalistico possa desiderare. Ci vuole più realismo. Le idee politiche camminino molto di più con gli scambi economici che con prediche su modelli politici che non potranno mai essere applicati.
Pietrosanti: ho sentito parlare molto di interessi dell’Europa; cosa intendiamo per essi? Sono quelli a breve termine? È la somma degli interessi a volte compatibili ed a volte non compatibili dei singoli paesi europei o dell’Europa in quanto popolo europeo? Ma non avendo questo popolo rappresentanti politici in grado di sfavorire l’interesse di una singola nazione quando sia contrario all’interesse di lungo periodo di tutta la comunità non so quanto questo interesse non possa essere considerato solo la somma degli interessi a breve delle singole nazioni. Occorrerebbe un’ottica di lungo periodo.
Le repliche conclusive
Picasso: è vero che Al Baradei non ha alle spalle un partito, ma ha un seguito e la Fratellanza Mussulmana ha ospitato suoi interventi nel suo sito; evidentemente ci sono giochi di potere, dialoghi e confronti politici nella società civile egiziana che noi non percepiamo. Al Baradei è un personaggio che a livello internazionale gode di una stima paragonabile, forse superiore a quella di Mubarak; il suo nobel per la pace, i suoi incarichi nell’agenzia nucleare dell’ONU e la crisi nucleare con l’Iran lo hanno messo in una posizione di visibilità con la quale qualunque altro candidato alla presidenza dovrà fare i conti. Se non sarà presidente dobbiamo considerare che lì le elezioni sono guidate, comunque avrà un peso nella campagna elettorale.
Iannuzzi: se Al Baradei non sarà eletto è perché il regime non gli permetterà nemmeno di candidarsi; la costituzione permette la candidatura solamente a chi è sostenuto da un partito ed egli non ne ha; in Egitto sono pochi i partiti legalmente riconosciuti. Quando Mubarak andò poco tempo fa negli USA si portò il figlio con l’evidente scopo di sdoganarlo come suo successore. Se gli USA si dicono promotori della democrazia perché permettono che Mubarak vada in Usa con il figlio? C’è da notare un’altra cosa: i regimi che esistono in Ergitto e in Libia sono altrettanto estranei alla cultura araba e mussulmana come lo è la democrazia; sono delle creazioni moderne. In realtà nel mondo arabo c’è una fortissima richiesta di democrazia, anche se con modalità che non sono quelle occidentali. Questi regimi non sono garanzia di stabilità in quanto fomentano proprio ciò che noi temiamo; se ci fosse democrazia ci sarebbe meno fondamentalismo, meno estremismo e molti non sarebbero costretti ad emigrare.
Aliboni: è stato chiesto quale può essere l’interesse dell’Europa nei confronti di questi paesi e quale la politica che possiamo condividere tra noi come paesi europei. Questo è un problema importante; non c’è dubbio che dopo le politiche molto ambiziose degli anni 90 ora non sappiamo cosa fare né cosa vogliamo; siamo nel nulla, vittime di contraddizioni che non sappiamo risolvere. Il caso di Hamas che ha vinto le lezione ma che se ne è visto negare i risultati da un occidente abbastanza compatto resta un problema non risolto. Non possiamo dire semplicemente che è stato un errore. Era una vittoria che poneva in discussione interessi e orientamenti acquisiti. Oggi siamo ancora senza una risposta. La politica della promozione della democrazia che ha caratterizzato un’epoca è finita con Bush junior; ma si è chiusa con la necessità di dare una risposta più concreta. Cosa fare? Io penso che non sia sbagliato promuovere la democrazia, ma che sia sbagliato promuoverla nei modi con cui questo avviene. Siamo arrivati impreparati là dove la storia ci aspettava e ora vediamo uno spicciolo prevalere di interessi nazionali. Dobbiamo considerare che questi regimi dittatoriali o autoritari e per i quali proposte di democrazia politica non funzionano, sono sostenuti da élite tenute insieme da interessi economici, favoritismi e corruzione; abbiamo sbagliato nel promuovere la democrazia non mettendo l’accento sulla liberalizzazione dell’economia, sulla riforma del costume, sull’imposizione di un certo grado di concorrenza. Oggi la situazione nel Mediterraneo vede in questi paesi “cricche” colluse con cricche europee. È di queste cose che ci si deve preoccupare.