Ieri nella storia dell’Afghanistan è stata scritta una pagina dalle tinte chiaro scure. Da tempo si parlava della ineluttabilità di trattare con i talebani. Ma forse nessuno in Occidente si sarebbe mai immaginato che i negoziati si aprissero con i rappresentanti del nemico scortati dalle truppe Nato a Kabul. Un bilancio altrettanto sorprendente, in senso negativo, arriva dalla commissione elettorale. A un mese dal voto per il rinnovo del parlamento nazionale (Jirga), il responsabile degli scrutinatori, Fazil Ahmad Manawi, ha detto che “i votanti sono stati circa 5,6 milioni e i voti validi sono poco oltre i 4,2 milioni. Le schede annullate ammontano a 1,3 milioni”.
In termini statistici, si tratta del 20% delle preferenze che perdono immediatamente valore. Volendo essere puntuali, Kabul dovrebbe richiamare l’elettorato alle urne. Sappiamo che questo, da un punto di vista di sicurezza, spese e stabilità politica per Karzai – quella che resta – è praticamente impossibile. Prendendo atto di questo dato, senza considerare ancora il risultato delle schede valide, la conclusione è che il voto del 18 settembre è stato marcato da una serie di brogli a chiazza d’olio, accordi sottobanco in opposizione a Karzai e boicottaggi di ogni tipo. Non solo. Questo milione e passa di elettori afghani hanno disconosciuto le istituzioni di Kabul e con esse la Nato.
Per quanto riguarda l’apertura dei negoziati, la scena che si è presentata ieri deve aver fatto tremare i polsi ai falchi di Washington che, oggi in pensione oppure emarginati dall’agone politico, nove anni fa erano stati i primi a spingere per un intervento armato nel Paese. Dopo l’11 settembre 2001, l’Amministrazione Bush dichiarò guerra al terrorismo, ad al-Qaeda e a Osama bin Laden. E, dato che i talebani dell’Afghanistan, guidati dal mullah Omar, proteggevano quest’ultimo, il regime fondamentalista e oscurantista di Kabul fu automaticamente incluso nella lista dei nemici da sconfiggere. Chissà cosa devono aver detto Dick Cheney e Donald Rumsfeld ieri, nel leggere sulle pagine del New York Times l’indiscrezione per cui quattro leader talebani avrebbero lasciato i loro nascondigli al confine con il Pakistan per giungere a Kabul protetti da militari dell’Alleanza atlantica. Secondo le indiscrezioni dell’autorevole quotidiano statunitense, si tratterebbe di capi tribali che vantano un rapporto personale consolidato con il presidente afghani, Hamid Karzai, e con il suo clan. La loro scelta sarebbe determinata da questi precedenti. Altre fonti parlano però di un tentativo di coinvolgimento anche del clan Haqqani, famoso per la sua intransigenza.
L’idea di avviare un confronto con le forze nemiche è oggetto di discussione ormai da un anno. In occasione delle elezioni presidenziali dell’estate 2009 – tornata dalla quale emerse una vittoria per Karzai, per quanto gravata da innumerevoli riserve – in seno alle istituzioni di Kabul, si cominciò a valutare se fosse possibile aprire un dialogo di pacificazione con le forze più moderate e quindi non allineate al mullah Omar. Dopo molti tentennamenti, la proposta venne sposata anche dagli Stati Uniti. Barack Obama, in poco più di un anno e mezzo di presidenza, si è reso conto di aver ereditato un conflitto dal quale il Pentagono non sa come uscire. Dopo 9 anni di guerra, più di 300 miliardi di dollari spesi, e oltre 5 mila soldati uccisi, Washington è giunta alla conclusione che sia necessario chiudere il capitolo degli scontri a fuoco e passare alla risoluzione politica. Il problema è che né gli Stati Uniti né la Nato possono permettersi di smobilitare l’Afghanistan in fretta e furia, facendo passare la loro exit strategy come una ritirata e quindi una sconfitta. Da un punto di vista militare, Washington vorrebbe imitare la Gran Bretagna di Winston Churchill la quale, nel 1940, reimbarcò le sue truppe a Dunkerque di fronte alla blitzkrieg della Germania nazista. L’operazione allora passò come un grande successo strategico, non solo tattico. La Nato, con i talebani che dilagano in Afghanistan, sogna di fare altrettanto.
Con questo obiettivo, inizialmente si era pensato di demandare l’intero lavoro dei negoziati alla presidenza Karzai. In questo modo, l’Occidente vi avrebbe apposto il suo placet, restando però dietro le quinte ed evitando di compromettersi. Il fatto che ieri i quattro leader talebani siano arrivati a Kabul sotto scorta della Nato fa crollare questo bizantinismo che, comunque sulla carta avrebbe attribuito una parvenza di immagine non compromessa all’Alleanza. La Nato ha dato il suo ok ai negoziati. Questo, come ha fatto notare il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, è un passaggio obbligato. Se si vuole chiudere una guerra, bisogna parlare con il nemico. Ciò che lascia perplessi è la modalità di questo agire.
Perché questa rappresentanza talebana ha bisogno della protezione Nato? È noto che i mujaheddin più radicali non siano per nulla disposti al dialogo. Tant’è vero che il mullah Omar – per quelle poche dichiarazioni a lui attribuite e diramate in questi ultimi dodici mesi – si è espresso sempre in modo schiettamente contrario ai negoziati. Nella sua visione, l’Afghanistan pacificato è un Afghanistan nelle mani dei talebani, una volta sgominati la Nato e i suoi alleati locali, Karzai in primis. Di qui la quasi certezza che chi tratta con il nemico non meriti altro che l’eliminazione. Non va esclusa, però, l’eventualità che nella stessa compagine filo governativa – che sappiamo essere composita e frammentata alla stregua delle forze avversarie – ci sia qualcuno che con i talebani non vuole trattare. In tal caso, la Nato si troverebbe in una situazione ancora più aggrovigliata. Non solo appare politicamente alla mercé di un presidente afghano parzialmente screditato dall’opinione pubblica nazionale, ma sta combattendo contro nemici di varia identità e, al tempo stesso, è affiancata da forze locali sulla cui affidabilità nessuno se la sente di scommettere. Visto così lo scenario, è difficile pensare a una Dunkerque dalle tinte centro asiatiche.
Pubblicato su liberal del 22 ottobre 2010