Qualche bugia sulla riforma della legge elettorale

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di LIVIO GHERSI

Gaetano Salvemini, don Luigi Sturzo, Piero Gobetti, Francesco Saverio Nitti erano reazionari? Nessuno storico serio lo affermerebbe; ma ce lo rivela un politico-giurista, che prima di essere senatore della Repubblica era professore ordinario di Diritto pubblico comparato. Il senatore-professor Stefano Ceccanti dichiara sobriamente che: “proporre sistemi proporzionali solo timidamente corretti da sbarramenti” significa sostenere una posizione “reazionaria”. Non bastava qualificare “sbagliata” quella posizione; no, occorreva un sovrappiù. Ci voleva un bollo d’infamia: posizione “reazionaria”, dunque, cosicché tutti i democratici autentici e tutti i progressisti sappiano come orientarsi. La cosa che mi ha fatto sorridere è che questo sciagurato errore commesso dai sostenitori di un sistema elettorale proporzionale sarebbe — sempre a giudizio del senatore-professor Ceccanti — molto più grave dell’errore commesso da quanti difendono la legge elettorale vigente (legge 21 dicembre 2005, n. 270). Infatti, definisce soltanto “conservatrice” (cioè meno grave che “reazionaria”) la posizione di chi, negando l’evidenza, non si avveda che esiste “il problema di ricostruire un rapporto tra il cittadino elettore e il suo rappresentante”. Per chi voglia meglio valutare queste perle di saggezza, rinvio all’articolo titolato “L’uninominale a turno unico è la terza via riformista”, pubblicato dal “Corriere della Sera”, edizione del 13 ottobre 2010, p. 10.

Secondo il mio modesto giudizio, Ceccanti, nella circostanza, si è spogliato delle vesti di scienziato (chiamato a pesare le ragioni di ogni posizione) e si è immedesimato fino in fondo nei panni del politico partigiano. Partigiano, ossia “di parte”, che non conosce soluzioni astrattamente migliori di altre, ma comprende unicamente la convenienza per il proprio partito. Il Partito Democratico è nato per incarnare uno dei due partititi di un ipotetico sistema bipartitico; ci fosse una legge elettorale proporzionale, non raccoglierebbe la metà dei consensi che ha avuto nelle ultime elezioni del 2008.

La mia personale formazione politica è maturata attraverso la lettura de “La Rivoluzione liberale” di Gobetti (mi riferisco, in particolare, al libro del 1925, che reca come sottotitolo “Saggio sulla lotta politica in Italia”). Poi, naturalmente, sono andato avanti. Quelle letture giovanili oggi tornano utilissime; cito qualche brano: “Il loro istinto di padroni guida assai precisamente i fascisti nella lotta contro la proporzionale”. “L’importanza dell’opera moralizzatrice della proporzionale si riconobbe negli esperimenti italiani, nella sua attitudine a liquidare i governi di maggioranza. Dove prevale senza incertezze una maggioranza si ha nient’altro che un’oligarchia larvata”. “La tendenza del collegio uninominale si esprime nella formazione di una classe di politici, facili a degenerare in una pratica di politicantismo parassitario”.

Il “politicantismo parassitario” non piaceva a Gobetti e continua a non piacere a me; indipendentemente dai sistemi elettorali. Anzi, cambiare periodicamente la legge elettorale può essere un rimedio contro i professionisti della politica i quali, abituati ad operare con un dato sistema elettorale, nell’immediato incontrano difficoltà a trovare il modo per aggirare regole nuove.
Piacerebbe poter ragionare di legge elettorale senza tesi precostituite, funzionali agli interessi contingenti di questo o quel partito.

Il sistema maggioritario, nell’esperienza del collegio uninominale a turno unico, garantisce rappresentanza soltanto al candidato che prenda anche soltanto un voto in più degli altri candidati concorrenti nel collegio. Il primo prende tutto. Qualora in tutti collegi del Paese prevalesse sempre (anche di stretta misura) la medesima coalizione politico-elettorale, si determinerebbe un’Assemblea parlamentare di un’unica tendenza politica, senza opposizioni. Non è un’ipotesi meramente teorica. Ad esempio, nelle elezioni politiche del maggio 2001, la coalizione di Centro-Destra, che allora si chiamava “Casa delle Libertà”, conquistò in Sicilia tutti i collegi uninominali per la Camera (20 nella Sicilia-1 e 21 nella Sicilia-2). La stessa cosa si verificò con riferimento ai collegi per l’elezione del Senato. Da momento che, per quanto mi riguarda, penso che il Parlamento possa ben operare soltanto se è effettivamente rappresentativo delle forze politiche, economiche, sociali, culturali, che nel dato momento storico operano nel Paese, nelle sue articolazioni territoriali, sono nettamente contrario ad ogni modello di legge elettorale che preveda di attribuire tutti i seggi del Parlamento in collegi uninominali a turno unico.

In altre parole, sono contrario “ideologicamente” al sistema maggioritario puro; che può portare a risultati tali da contraddire la logica stessa della democrazia rappresentativa. Il discorso cambia se si sceglie un sistema elettorale cosiddetto misto, che, pur assegnando la stragrande maggioranza dei seggi con metodo maggioritario in collegi uninominali, garantisca, mediante una seconda scheda di votazione, che una quota significativa dei seggi (almeno il 15 per cento del totale) venga ripartito con metodo proporzionale fra liste di candidati, tra loro concorrenti in circoscrizioni territoriali di grandi dimensioni (quasi sempre sovra-regionali, eccettuate le Regioni più popolose come la Lombardia). Questo è l’unico modo per garantire l’effettiva rappresentatività dell’Assemblea parlamentare, in modo che ne facciano parte anche deputati che rappresentano partiti di minoranza. Mi riferisco alle minoranze che hanno rilevanza sociale; di conseguenza — con riferimento alla quota di seggi da attribuire con metodo proporzionale — sono favorevole a prevedere una soglia di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza. Dal mio punto di vista, la soluzione ottimale sarebbe fissare tale soglia al cinque per cento del totale dei voti validi espressi nella singola circoscrizione di riferimento. Il cinque per cento, su base circoscrizionale, è una soglia di gran lunga inferiore al cinque (ma anche al quattro) per cento su scala nazionale. Questa soluzione consentirebbe pure ai partiti radicati in singole realtà regionali di avere rappresentanza in Parlamento, facendo venir meno l’esigenza di alleanze spurie fra forze politiche diverse, che si alleano unicamente per superare la soglia di sbarramento nazionale.

Poiché la quota di seggi da attribuire con metodo proporzionale risponde all’esigenza di garantire un diritto di tribuna alle minoranze politiche più significative, la legge elettorale non dovrebbe prevedere alcun meccanismo artificioso che alteri la libera espressione del voto degli elettori. In particolare, non dovrebbe essere riproposto il meccanismo di “scorporo” proprio della precedente legge elettorale, nota con il nome del ministro Mattarella (legge 4 agosto 1993, n. 277). Circoscrizione per circoscrizione, si dovrebbe semplicemente “fotografare”, la realtà dei rapporti di forza fra le varie liste, come scaturiscono dal voto liberamente espresso dagli elettori; escludendo dalla rappresentanza le liste che non raggiungano la soglia di sbarramento circoscrizionale.
Tenuto conto che la logica del diritto di tribuna è quella che i partiti di minoranza siano rappresentati in Parlamento dalle personalità più rappresentative nel proprio rispettivo ambito, ritengo giusto che, per i seggi da attribuire con metodo proporzionale, i candidati siano eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista. Come criterio di portata generale, l’espressione del voto di preferenza, secondo me, va sempre evitata in circoscrizioni elettorali di grandi dimensioni. Perché più ampia è la circoscrizione, maggiori sono le spese elettorali che il candidato che cercasse la preferenza per sé dovrebbe affrontare. Quando le spese crescono a dismisura, non vincono i più virtuosi, ma coloro che dispongono di maggiori risorse finanziarie, comunque ottenute.

La scelta personale del candidato, invece, si può fare nel collegio uninominale, che ha una dimensione territoriale ristretta.

E’ strano che Ceccanti — e quanti insieme a lui amano la procedura delle primarie per selezionare i candidati alle più importanti cariche di partito, o i candidati che devono guidare coalizioni elettorali ai vari livelli di rappresentanza — escludano così perentoriamente la possibilità di un turno di primarie pure per la scelta dei candidati per ciascun collegio uninominale. Per quanto mi riguarda, penso che sarebbe tanto più autenticamente liberale una legge elettorale che prevedesse un turno obbligatorio di primarie, disciplinato per legge, da tenersi nel territorio di ogni collegio quattro settimane prima della data fissata per le elezioni politiche. Dovrebbe essere consentito di partecipare alle primarie anche ai candidati indipendenti, cioè non collegati ad un simbolo di partito. Potrebbero concorrere alle elezioni per il seggio nel collegio uninominale i due candidati risultati più votati nel turno obbligatorio di primarie; qualora più di due candidati ottenessero una quantità di voti superiore al 12 per cento del totale dei voti validi espressi nelle primarie, dovrebbero altresì concorrere alle elezioni per il seggio nel collegio uninominale tutti gli eventuali altri candidati che avessero raggiunto tale percentuale di consenso nelle primarie. Questa soluzione, semplicissima, non piace ai politici di professione, perché vogliono essere loro a decidere chi candidare, o non candidare, in ogni collegio. Invece, la soluzione più liberale è quella che rimette il potere di selezione agli stessi cittadini elettori, appunto con il meccanismo delle primarie.

In contrasto con i fautori del maggioritario a tutti i costi, non mi scandalizzerebbe neppure una legge elettorale esclusivamente proporzionale. Con due correttivi importanti: a) la previsione di collegi plurinominali (in cui si eleggano un massimo di nove deputati, ma, come dato medio, da cinque a sette) di dimensioni territoriali contenute e quasi sempre infra-regionali, in sostituzione delle attuali grandi circoscrizioni territoriali; b) il divieto di candidarsi in più di tre collegi, pena la nullità del’elezione. In presenza di collegi plurinominali delle caratteristiche descritte, non ci sarebbe più bisogno di soglie di sbarramento: infatti, il numero ridotto di deputati da eleggere determinerebbe uno sbarramento implicito, impedendo alle liste che ottengano basse quantità di consenso, di ottenere un seggio anche con l’utilizzazione dei resti. Una legge elettorale interamente proporzionale dovrebbe ammettere l’espressione di preferenze per i candidati; ma proprio la previsione di collegi plurinominali di contenute dimensioni territoriali e demografiche, in sostituzione delle circoscrizioni ampie, sarebbe una efficace misura di contrasto nei confronti della proliferazione delle spese elettorali, si tradurrebbe cioè in una regola strutturale tendente alla moralizzazione della vita pubblica.

La legge elettorale vigente (la n. 270/2005) non ha soltanto l’inconveniente che tutti i parlamentari sono eletti secondo l’ordine di presentazione nelle liste e, quindi, di fatto sono “nominati” da chi ha il potere di decidere sulla composizione delle liste. Ha almeno altri due inconvenienti, altrettanto inaccettabili per qualunque coscienza animata da ideali liberali e democratici:

1) il premio di maggioranza, che contrasta logicamente con la Forma di governo parlamentare, dal momento che il Parlamento non è più libero di determinarsi autonomamente, secondo le proprie prerogative costituzionali, ma diventa Organo subordinato al Governo: i deputati eletti in virtù del premio di maggioranza, altro non devono fare che sostenere il Governo e votare disciplinatamente a favore dei provvedimenti che presenta;

2) la previsione di soglie di sbarramento variabili, a seconda che una lista faccia parte, o meno, di coalizioni elettorali. Tale normativa contrasta radicalmente con il principio costituzionale secondo cui tutti i voti sono uguali (articolo 48, secondo comma, Cost.), ossia devono avere lo stesso peso. Invece, non hanno lo stesso peso i voti della lista “A”, la quale, correndo da sola, deve raggiungere la soglia del quattro per cento nazionale dei voti validi espressi per ottenere rappresentanza, e i voti della lista “B”, la quale, facendo parte di una delle maggiori coalizioni, può ottenere seggi se raggiunge appena il due per cento nazionale (o anche meno, considerata la disposizione, veramente ridicola ed irrazionale, a favore del “miglior perdente”).
Tutte le leggi elettorali dei più importanti Paesi europei, dal Regno Unito, alla Germania, non prevedono premi di maggioranza. Questa è un’invenzione italiana; sul modello veramente infausto della legge “Acerbo”, con cui si votò nel 1924 e che aiutò il fascismo a diventare regime. Le maggioranze non si creano “per legge”, ma assecondando le tendenze di fondo dell’elettorato in ogni momento storico.

Il premio di maggioranza obbliga a coalizioni composite e forzose per prevalere, fosse anche di un solo voto, sull’avversario. La formula berlusconiana di unire quanti sono contro “la Sinistra”, ha l’evidente inconveniente di non porre limiti a Destra e, infatti, vediamo tanti neo-fascisti dichiarati occupare posti di responsabilità. Come questi stessi neo-fascisti, che dovrebbero essere nazionalisti, possano poi coesistere con la Lega Nord e con il suo disprezzo nei confronti della Patria italiana, è questione che darà ampia materia di studio agli storici futuri. Dall’altra parte, la sacra unione contro Berlusconi assembla comunisti e liberali, anticlericali e spiriti rispettosi del sentimento religioso, fautori dell’economia di mercato e anti-capitalisti programmatici.
Rispetto a tutto questo, non è di gran lunga preferibile il libero dispiegarsi della dialettica fra una pluralità di forze politiche, in un libero Parlamento? Per me è preferibile; infatti, sono un fautore della Forma di Governo parlamentare, che lascia alla politica la sua necessaria autonomia e non vuole irreggimentare tutto in maggioranze precostituite “per legge”, le quali poi inevitabilmente non reggono alle dinamiche reali e si sfasciano, l’una dopo l’altra. Con buona pace dei giuristi.

Resta appena lo spazio per valutare la proposta di Angelo Panebianco di prevedere che gli elettori possano esprimere due voti: uno per il loro candidato preferito nel collegio uninominale di riferimento; il secondo (facoltativo) per indicare, eventualmente, un altro candidato dello stesso collegio, considerato la “seconda scelta”. Qualora nessun candidato raggiungesse la maggioranza assoluta (ipotesi che si verifica molto di rado), si eleggerebbe chi ha più consensi sommando le prime e le seconde scelte. Tale soluzione, secondo Panebianco, avrebbe il merito di rendere “meno conveniente la violenza verbale”. Ogni candidato, senza rinunciare all’identità programmatica della propria forza politica, sarebbe indotto ad “una maggiore moderazione di linguaggio e toni” per non alienarsi elettori che potrebbero votarlo come seconda scelta. Si veda l’editoriale “Una riforma senza veti”, nel “Corriere della Sera”, edizione del 12 ottobre 2010.
Si tratta di una proposta non nuova, che, per quanto mi riguarda, trovo eccessivamente macchinosa. Sono noti tutti gli attuali problemi che si riscontrano nella fase di scrutinio delle schede, laddove sono fin troppo frequenti le accuse di brogli, sollevate, spesso strumentalmente, dai rappresentanti di lista; dopo essere state verbalizzate, queste accuse hanno spesso un seguito nel contenzioso giurisdizionale. Immagino cosa succederebbe se gli scrutatori fossero tenuti ad annotare, per ogni scheda, il voto attribuito ad un candidato e, distintamente, la seconda scelta.

La via maestra, secondo me, resta quella di far precedere le votazioni da un turno obbligatorio di primarie. Soltanto così si approverebbe una legge con quel “velo d’ignoranza” che Panebianco auspica, riproponendo un’espressione di John Rawls (“A Theory of Justice”, 1971). Il problema è che il nostro Legislatore non sembra gradire leggi elettorali che comportino margini di rischio, non predeterminando in partenza condizioni di vantaggio per alcuno.

Tutte le riflessioni, più o meno dotte, sulla legge elettorale, che leggiamo in questo periodo, trascurano un fatto importante: per determinare la delimitazione territoriale di nuovi collegi uninominali, secondo le quantificazioni stabilite dal Legislatore, per la Camera dei Deputati, poi per il Senato della Repubblica, occorrerebbe non meno di un anno e mezzo. Bisognerebbe istituire una Commissione tecnica, con il coinvolgimento pieno dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e con la partecipazione di qualificati docenti universitari ed esperti. Poi le risultanze della Commissione dovrebbero essere sottoposte alla valutazione delle forze politiche in sede regionale, quindi esaminate nella sede delle competenti Commissioni legislative di Camera e Senato. Con una procedura analoga a quella seguita quando si trattò di istituire i collegi uninominali in attuazione della legge del 1993.

Poiché sento parlare e leggo della possibilità di approvare, in breve tempo, una nuova legge elettorale, delle due l’una: o la nuova legge elettorale farebbe a meno dei collegi uninominali, oppure non è vero che la questione possa essere liquidata in poco tempo.
A meno che non si vogliano riesumare gli stessi collegi uninominali utilizzati quando era in vigore la legge elettorale del 1993.

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