Musharraf ci riprova. L’eventualità che l’ex presidente pakistano, Pervez Musharraf, possa tentare di riprendere il potere, partecipando alle elezioni del 2013, deve aver fatto vibrare i polsi all’attuale pletora di Islamabad. Due anni fa, il tandem Gilani-Zardari lo aveva destituito con un colpo di mano sostenuto dai centri di potere nazionale, Forze armate e servizi di intelligence (Isi), e in maniera implicita anche dall’Occidente.
Nei suoi 11anni di regno – Musharraf si era proclamato presidente anch’egli grazie a un golpe nel 1999 – il Pakistan non era riuscito a trovare pace, come al contrario aveva giurato l’ex generale. Anzi, la promessa di stabilità e il sostegno alla lotta talebana erano e sono rimaste disattese. Gli Stati Uniti hanno speso finora 7,5 miliardi di dollari. Nel solo 2010 gli aiuti hanno raggiunto i 200 milioni. Il controllo del Pakistan era sfuggito dalle mani del governo centrale e dal carisma personale di Musharraf. Il fondamentalismo islamico, già radicato nelle province confinanti con l’Afghanistan, si è esteso, nel corso degli anni, a tutto il Paese. Il terrorismo ha mietuto migliaia di vittime tra la popolazione civile, ma ha anche eliminato alcuni personaggi di elevata caratura in seno all’establishment pakistano. Prima fra tutti Benazir Bhutto, uccisa il 26 dicembre 2007. La vicina India, a sua volta, ha puntato l’indice contro i servizi di sicurezza di Islamabad, ritenuti collusi con i talebani, in particolare con il gruppo di Lashkar-e-Toiba, lo stesso che, nel novembre 2008, sarebbe stato responsabile dell’attentato di Mumbai. Nel frattempo il Paese è piombato in una spirale di corruzione e di intrighi.
Agli occhi degli sponsor politici e finanziari di Musharraf, la situazione si era fatta insostenibile. Il presidente, quindi, venne assunto come capro espiatorio del “disastro Pakistan”. I brogli elettorali che pesarono sulle presidenziali del 2007 vennero adottati come giustificazione per metterlo in minoranza e accusarlo di mancata realizzazione delle promesse fatte. Era evidente che Islamabad fosse lungi dal potersi considerare una democrazia. Per il generale non bastò rassegnare le dimissioni da Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e limitarsi a indossare esclusivamente gli abiti borghesi di Capo dello Stato. Ritenuto ormai impresentabile, gli Usa e i governi degli altri Paesi occidentali lo abbandonarono.
Dal 2008 a oggi, non è mai stato appurato se a Washington e in Europa fossero fondate le speranze di aprire un capitolo post-Musharraf virtuoso per il Pakistan. Gilani e Zardari, anche loro vecchie volpi della politica centro-asiatica, in passato avevano già dato prova della propria inefficienza nell’arginare le profonde criticità del Paese.
Dopo due anni di esilio volontario a Londra, le dichiarazioni di Musharraf lasciano intendere due cose. Prima di tutto, fanno capire che l’ex presidente non ha ancora accettato di essere relegato alla storia. Pagato lo scotto del proprio insuccesso e soprattutto trovate nuove energie, freme per tornare nell’agone politico nazionale e dimostrare l’errore che sarebbe stato commesso detronizzandolo. Musharraf sceglie un momento di congiuntura terribile per l’Asia centrale, ma forse propizia per i suoi interessi. Il suo Paese è in ginocchio a causa delle alluvioni che lo hanno colpito in agosto. In Afghanistan, a sua volta, la guerra avanza con progressiva difficoltà. A Kabul sabato prossimo sono attese le elezioni parlamentari. Esse costituiranno l’ennesima prova per il presidente Hamid Karzai, la cui immagine è sempre più sbiadita. Si tratta di vuoti politici, questi, che Musharraf starebbe valutando come opportunità da colmare. Per farlo – e questo è il secondo punto – deve aver avuto il nullaosta da Washington e da Londra. È possibile che i due più importanti sostenitori del Pakistan – due anni fa governati da amministrazioni di colore opposto a quelle attuali – si siano resi conto che Musharraf, sebbene non sia l’uomo nuovo per il centro Asia, potrebbe giocare ancora qualche carta interessante. Certo è che, senza il via libera dell’Occidente, il generale non avrebbe potuto rilanciarsi nella corsa delle presidenziali del 2013. Ed è per questo che oggi il governo di Islamabad sta tremando.
Pubblicato su liberal del 14 settembre 2010