Aumenta la disoccupazione anche in Italia

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Giovani e immigrati, istruzione e disoccupazione: tutto fa parte di un sistema

di MARTINA CECCO

Aumenta la disoccupazione anche in Italia, il tasso di persone che non hanno un lavoro sale pericolosamente verso il 30%. Di queste solo una piccola parte sta cercando una posizione lavorativa. Più a rischio le donne, gli uomini più stabili. Un record storico “in negativo” quello emerso dai primi dati temporanei ISTAT relativi al primo semestre 2010, ma la situazione non è solo questa.

La vera domanda da porsi è quella che va oltre il primo approccio a una situazione difficile: noi, che cosa vogliamo dai nostri giovani che si affacciano alla vita lavorativa?

L’aumento del numero delle persone che sono senza un lavoro, confrontato con la diminuzione delle persone che non riescono a trovare un lavoro dopo averlo perso mette in discussione il sistema del mercato del lavoro italiano: aumentano le ore lavorate, aumentano le ore di straordinari, aumentano i cassintegrati, aumenta il costo di lavoro e diminuiscono i giovani al primo impiego. E nonostante questo segni di ripresa ci sono.°

Si parla di scolarizzazione, di istruzione e di formazione, ma quando è tempo di arrivare al dunque bisogna fare i conti con la realtà: non si può certo pensare che il giovane possa inserirsi a pieno regime nel mercato del lavoro quando non ha ancora finito il percorso di studi. La scelta sul come comportarsi “da grande” dipende anche dalle decisioni prese in età giovanile: la situazione economica, il tipo di scuola scelto, l’impiego del tempo libero, sono dei fattori che in passato condizionavano in maniera quasi decisiva il giovane che si affacciava al mondo del lavoro. Adesso invece le cose sono cambiate.

Siamo una generazione cerniera: il primo passo perché i giovani non si disamorino nel cercare il lavoro è aiutarli a fare in modo che si avvicinino a questo importante momento con una certa serenità d’animo.

I condizionamenti sociali ed economici nella vita di un giovane, contano meno, ora rispetto al passato.? Quello che sta succedendo in Italia da una decina di anni a questa parte, sia per scelta politica, che per necessità economica è lo sviluppo di percorsi che consentono ai giovani di mantenere una certa libertà nel poter cambiare il proprio progetto di vita anche dopo avere conseguito l’esame di maturità. Se in passato la scelta di una scuola piuttosto che un’altra serviva (sia in bene che in male) per definire il futuro, ora non è più così.

Prendendo come punto di partenza la Riforma del sistema scolastico già si notano delle differenze molto sostanziose: non solo gli istituti superiori del tipo tecnico o liceale si stanno sempre più rendendo aperti a possibilità di sviluppare conoscenze alternative, ma anche la formazione professionale ha cambiato il suo volto. Un ragazzo che si iscrive al primo anno di scuola superiore ha la certezza di poter decidere in futuro che fare, ma anche non ha più la certezza di uscire con il classico “pezzo di carta” che gli darà un lavoro, possibilmente a tempo indeterminato, per arrivare alla pensione.

Il diritto allo studio garantito per legge, fa sì che il giovane possa tranquillamente arrivare al diploma o alla laurea senza rinunciare al suo essere “giovane”: può essere aiutato sia con mezzi economici che materiali e non ha bisogno di concentrarsi sul mondo del lavoro, di cui può occuparsi più in là.

Di contro però, questo sistema ha portato a un ritardo nel crescere e nel maturare una idea di lavoro e di professione. Questo rallentamento della crescita è benvisto specie dai nostri politici: risponde esattamente alle esigenze di un paese che vorrebbe riuscire a mantenere dentro ranghi precisi la sua gente. Meno richiesta di lavoro c’è, meglio si riescono a gestire i soldi.

Sembra strano pensare che tutte queste decisioni prese apparentemente “a fin di bene” portano poi a creare profili professionali e tecnici molto alti, che non possono trovare soddisfazione in un mercato del lavoro che cerca invece manodopera, attingendo alle risorse che si traducono in parole povere in immigrati impiegati a tempo determinato. Ricordiamoci la parola determinato, perché serve nella seconda parte di questa logica sul sistema.

Questo sistema non funziona: se i nostri percorsi di studio portano a pensare che le opportunità siano più alte, se la nostra situazione pensionistica porta la politica a decidere di investire dove non ha obblighi (persone che non restano in Italia da anziani), se i nostri giovani ritardano la ricerca del lavoro, se chi è al lavoro prosegue anche dopo l’età pensionabile, conviene a tutti. E invece no: conviene a tutti meno che ai giovani. A vent’anni si trovano nella situazione tragica di non avere un posto adatto a loro: non adatto per profilo e non adatto per creare una famiglia. Ecco la prima vittima del sistema.

Ancora il sistema non funziona: se il lavoratore della manodopera che rimane per poco tempo e poi se ne va è utile per fare funzionare il sistema stesso, nel momento in cui decide di stabilirsi ma non trova una collocazione permanente si trasforma da risorsa in costo. Ecco la seconda vittima di questo sistema.

Ritorniamo al problema del lavoro a tempo determinato per impiego di persone straniere: questo genere di lavoro, molto promosso in realtà, perché rispondeva alle esigenze del passato delle grandi imprese e del settore agricolo, ha creato un gap, sia culturale che economico. Abbiamo lasciato pensare che i lavori “da immigrato” non erano adatti ai nostri ragazzi, abbiamo lasciato “scappare” il concetto di contratto di lavoro fatto da diritti e da doveri e infine abbiamo “mollato la presa” sul limite minimo di reddito “di garanzia”. Tutto ciò spiega il malcontento delle piazze.

Quanti problemi si sono improvvisamente fatti sentire con la voce grossa appena la crisi economica ha fatto crollare il “castello delle carte”! Il nostro sistema, che andava benissimo in un contesto di “rampanti” “non regge il minimo”. Appena si deve lavorare sul lungo termine mantenendo un regime basso, il sistema non funziona più. Ecco che serve intervenire per aiutare le due vittime di cui sopra: i giovani e gli immigrati.

Serve aiutare ancora una volta i giovani a reinserirsi nel mondo del lavoro, guidandoli a scegliere lavori “normali” per cui non sono stati preparati e serve aiutare gli immigrati che si sono stabiliti nel nostro paese per colmare il tempo che passa tra un contratto a tempo determinato e l’altro. Queste due operazioni creano ancora dei costi: costi per la formazione e per l’accompagnamento al lavoro e costi per la integrazione dei salari. Sempre tenuto conto che rimane il problema del welfare e degli ammortizzatori sociali che non riguarda solo queste due categorie, ma tutti i cittadini italiani.

Questo lungo ragionamento, che può anche risultare difficile da prendere a piene mani, ad altro non serve che a dimostrare una cosa: prima o poi in un sistema che funziona vanno ricomposti tutti i tasselli del puzzle. Che si scelga di far crescere il giovane prima o dopo, che si scelga di studiare prima o dopo, che si scelga di aiutare gli immigrati prima o dopo, non cambia nulla, perché l’economia si basa sui numeri, che sono in questo caso anche persone, e sulla matematica, che in questo caso è danaro, oltre che sulle mode, tendenze, costumi e abitudini. Motivo per cui i conti, per tornare, devono proprio “tornare”.

° ISTAT
Per saperne di più: Il Comune di Roma per accompagnare i giovani alla ricerca del lavoro ha messo in atto il progetto ENTER, per informazioni contattare l’Assessorato al Lavoro e alle Politiche Produttive del Litorale.

Martina Cecco

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