Pomigliano assente

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di GIOVANNI PALMIERI*

Per capire la questione “Pomigliano” è forse utile fare ricordare la storia che dà origine a questo stabilimento: l’investimento, le maestranze.
Alla fine degli anni sessanta in Italia esistono due stabilimenti Alfa Romeo: il primo costruito nel 1910 al Portello, quartiere periferico di Milano, il secondo ad Arese, inaugurato nel 1963.
In questo periodo il Governo, tramite l’IRI proprietario dell’Alfa Romeo, decise alcune misure per favorire lo sviluppo del sud e arginare l’emigrazione di tanti giovani verso il nord Italia in cerca di lavoro. Così, con la contrarietà dell’allora Presidente dell’Alfa Giuseppe Luraghi si finanziò la costruzione di una nuova fabbrica per la produzione di vetture accanto al già esistente stabilimento “Alfa Romeo Avio” di Pomigliano d’Arco con un grande progetto denominato “Alfasud” completamente autonomo dalla cosiddetta “Alfanord” di Arese.
L’Industria Napoletana Costruzione Autoveicoli Alfa Romeo – Alfasud S.p.A. nacque il 17 gennaio 1968 con azionisti Alfa Romeo (88%), Finmeccanica (10%) e IRI (2%).

Nonostante numerosi ritardi, dovuti anche ai molti scioperi indetti dagli operai, la produzione, con soli tre mesi di ritardo, iniziò nell’aprile 1972.
Nel 1986 la Finmeccanica fu costretta a vendere le quote Alfa Romeo a Fiat per motivi finanziari e pertanto lo stabilimento entrò a far parte del Gruppo Fiat. Con la nuova gestione, in seguito alla fusione tra Lancia ed Alfa Romeo, lo stabilimento fu rinominato “Stabilimento Alfa-Lancia di Pomigliano d’Arco”
In seguito alla ristrutturazione aziendale del 2007 il Gruppo Fiat è divenuto Fiat Group Automobiles S.p.A. e l’Alfa-Lancia si è tramutata in Alfa Romeo Automobiles S.p.A.. Nel 2008, lo stabilimento è stato rinominato “Fiat Group Automobiles – Stabilimento Giambattista Vico”.
A Pomigliano l’assenteismo, la produttività, la qualità, la competitività e le regole non erano rispettate, ma non c’era bisogno di cambiare le leggi bensì di farle rispettare.
In Italia, in Europa e nel mondo la maggioranza delle aziende leader ottengono con queste leggi il massimo dai loro operai e non hanno mai pensato di cambiarle; le stesse, semplicemente, sono rispettate da lavoratori e imprenditori.

Perché tollerare per anni l’assenteismo galoppante che si è in passato verificato nello stabilimento in concomitanza con le tornate elettorali politiche, amministrative e referendum, tale da compromettere la normale effettuazione dell’attività produttiva?Perché non sanare le eventuali infiltrazioni camorristiche? Perchè evitare che la politica ne continui a fare terreno di raccolta voti di scambio?
Ma se in Polonia, come dichiara Fiat, tutto è perfetto: qualità, produttività, costi e competizione, allora perchè decide di investire 700 miliardi a Pomigliano? Riportare la produzione in patria è sicuramente un merito, derogare su diritti costituzionali non è possibile.
Dopo aver delocalizzato e quindi ricavato benefici da ciò, quali benefici prevede di ricavare con l’operazione inversa? E’ certo che il mercato dell’automobile assorbirà nei prossimi anni tutte le vetture Panda che la Fiat intende produrre a Pomigliano? E se ciò non avvenisse ?
Su questi argomenti non ci sono stati dibattiti, i sindacati e la politica non hanno fatto domande.

E’ possibile introdurre strumenti per premiare il merito, ma non è giusto rendere le condizioni lavorative un inferno.

Il crollo dell’Unione Sovietica è stato un fattore di grande importanza perché, tra l’altro, ha rafforzato fortemente il centrodestra e la destra. Le conquiste dei lavoratori tra gli anni ‘60 e ‘70 – salari decenti, prolungamento delle ferie, sabato festivo, servizio sanitario nazionale, nel nostro paese come in altri – sono stati possibili anche perché la classe dominate vedeva con grande preoccupazione l’Urss per quello che poteva significare come sostegno – ideologico oltre che materiale – ai partiti di sinistra dell’occidente. Caduta l’Unione sovietica, la destra ha preso forza e fiato e le sinistre si sono trovate l’erba tagliata sotto i piedi. Inoltre c’è il totale fraintendimento da parte delle sinistre, dei partiti socialdemocratici in particolare, del processo di globalizzazione ossia lo scambio che è effettivamente avvenuto fra l’Occidente che ci ha messo capitali e tecnologia, e la Cina, l’India ecc. che ci hanno messo la manodopera mal pagata. Non hanno capito: la globalizzazione c’è, perciò non resta che adattarsi ad essa, e ciò significa aver perso la partita ancor prima di cominciare.
L’industria continua ad essere un settore di grande importanza in tutte le economie sviluppate.
I modelli di strutturazione dell’impresa, messi a punto nell’arco di un secolo dall’industria manifatturiera, sono stati applicati anche ad altri settori. L’agroindustria, la ristorazione rapida, i call center utilizzano modelli di pianificazione del lavoro inventati un secolo fa. Gran parte del terziario ha adottato modelli che si fondavano, e in gran parte ancora si fondano, sull’imperativo taylorista: voi lavorate, noi pensiamo.
Dalla fine degli anni 70 si è avuta una straordinaria finanziarizzazione dell’imprenditoria e dell’attività produttiva in generale.

Sempre più si sono sviluppate tecnologie complesse per produrre denaro mediante denaro, evitando il passaggio attraverso le merci o facendo fabbricare le merci dai cinesi o dagli indiani.
Quindi la produzione di denaro per mezzo di denaro ha portato con sé – e per certi aspetti è stata anche scientificamente cercata – la svalutazione, la sottovalutazione del lavoro manuale, del lavoro industriale.
Le sinistre hanno rifiutato l’identità passata ma non si sono date una identità nuova,non hanno capito nulla del processo di globalizzazione. Non hanno capito che la globalizzazione è un aspetto di una guerra di classe globale. È una espressione che da noi fa saltare sulla sedia, anche a sinistra.
Ma è in un libro americano che si intitola “The global class war” di Jeff Faux, fondatore dell’Economic Policy Institute, che da buon americano liberal non teme di usare le parole che occorre usare, cioè conflitto di classe. Mentre le nostre sinistre hanno rimosso l’idea stessa di classe sociale.
Dall’89 sono passati 20 venti anni. Quello che si è smontato in vent’anni non è che si possa rimontare in poco tempo.
Sicuramente un recupero della teoria critica, anche come capacità di analizzare a fondo il processo dell’economia globale, come ad esempio sanno fare molti centri studi liberal americani, perché se uno vuol capire qualcosa finisce che deve passare di lì.
Gran parte del nostro centrosinistra è molto più a destra dei liberal americani, quindi bisognerebbe partire dall’analisi delle classi, da una analisi seria del processo di globalizzazione.

* ex Dirigente della Pirelli, fornitore primo equipaggiamento vetture Alfa Romeo e Fiat, ha partecipato all’avvio degli stabilimenti di Pomigliano e di Cassino.

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