Negli Usa si fucila ancora

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di ANTONIO PICASSO

La sentenza per Ronnie Lee Gardner è stata eseguita nella notte tra giovedì e venerdì, nel carcere dello Stato dello Utah (Usa). Dopo aver vissuto 25 anni nel braccio della morte, il detenuto è stato fucilato all’età di 49 anni, senza che la richiesta di grazia presentata dai suoi avvocati venisse accolta. Gardner era stato condannato nel 1985 per l’omicidio di un avvocato, ucciso durante un tentativo di fuga. Ormai solo lo Utah e l’Oklahoma prevedono la fucilazione come applicazione della pena di morte. Gli altri Stati dell’Unione, dov’è in vigore la sentenza capitale – 13 sui 50 totali – si sono adeguati all’utilizzo della sedia elettrica, oppure di veleni letali somministrati ai condannati. Dagli anni Settanta a oggi, sono stati solo tre i casi di fucilazione negli Usa. Quello di Gardner ha avuto come precedenti la sentenza inflitta a Gary Gilmore, nel 1977, e a John Albert Taylor, nel 1996. Il primo era stato condannato per omicidio plurimo, il secondo per lo stupro e la successiva uccisione di una bambina di 11 anni.

La fucilazione di Gilmore sollevò una nube di polemiche in quanto fu egli stesso a scegliere questo modo per morire – come del resto è stato per Gardner – esattamente un anno dopo che la Corte Suprema federale Usa aveva escluso la fucilazione dalle pratiche applicabili nelle sentenze capitali. Il “caso Gilmore” generò quindi un conflitto giuridico fra le istituzioni federali di Washington e quelle federate dello Utah, ma soprattutto fece da precedente affinché la fucilazione restasse in vigore. La scelta di essere fucilati è materia di studio della psicoanalisi. L’iniezione letale, per alcuni aspetti, solleva il boia dalle responsabilità della morte. Nel plotone di esecuzione c’è sempre un fucile caricato a salve e assegnato casualmente a uno degli esecutori. Questo perché chi spara abbia una minima percentuale di innocenza nell’atto di uccidere il condannato. Il “caso Gardner” è rivestito non solo di barbarie, ma anche di perversione. Il dead man walking ha scelto di sua iniziativa come morire. Ha scelto di far prevalere, per l’ultima volta, la sua volontà su quella del boia. Gilmore, Taylor, Gardner. Tre figure raccapriccianti, alle cui spalle si adombravano trascorsi di vita segnati da precedenti penali, abuso e spaccio di droghe e recidivi atti delinquenziali. La loro storia, ma soprattutto il caso Gardner oggi, riapre la polemica sulla efficacia o meno della sentenza capitale e sulla sua brutalità, nel caso in cui essa venga applicata con simili metodi, qual è appunto chiamare un plotone di esecuzione per uccidere un uomo.

Si è parlato per questo di un ritorno al “Far West” negli Stati Uniti.Quando la fucilazione venne introdotta come metodo di pena capitale, si pensava che fosse più umana rispetto alla decapitazione. Era la fine del XVIII secolo, la ghigliottina aveva avuto la sua parte da protagonista sanguinaria nella Rivoluzione francese e avrebbe continuato a “servire” lo Stato francese fino al 1981, quando l’allora Presidente, François Mitterand, la abrogò in modo definitivo. Ben diverso è il caso della fucilazione. A suo tempo, in ambito militare, veniva scelta per non macchiare l’onore dell’uniforme. Oggi viene applicata ancora in molti dei Paesi che prevedono la pena capitale. Famoso è il caso della Cina, dove la famiglia del condannato a morte è tenuta a rispondere delle spese per l’esecuzione. In pratica paga di tasca propria le pallottole sparate contro il parente ucciso. In questo scenario grottesco e anacronistico però, sulla pietra dello scandalo continuano a sedersi scomodamente gli Stati Uniti, i quali insieme alla Francia – e a tutto l’Occidente – hanno contribuito al pieno riconoscimento dei diritti umani. Anche per coloro che si sono macchiati di un crimine incancellabile. Omicidi e stupri, soprattutto se la vittima è un minorenne, generano spesso un sentimento di vendetta in seno all’opinione pubblica. Il desiderio di linciaggio viene a quel punto sedato dall’intervento dello Stato, il quale ricorre al suo diritto precostituito di applicare la violenza.

Tuttavia resta in sospeso il dubbio se la sentenza capitale sia davvero risolutiva nei confronti della persona che è colpevole e se faccia da esempio per il resto della società. A questo proposito le associazioni internazionali che si battono per i diritti dei condannati a morte hanno fatto degli Usa l’epicentro del loro attivismo. Amnesty International, Premio Nobel per la pace nel 1977, l’Innocence Project e soprattutto il composito movimento ecclesiastico – sempre più influente nella società americana – hanno definito una strategia comune. In seno alle Chiese battista, cattolica ed evangelica, l’abolizione della pena capitale è diventato un obiettivo trasversale e condiviso. Ne è emerso un profondo dibattito morale per la soppressione di questa contraddizione che è propria della società americana. Il risultato concreto purtroppo non è ancora sufficiente. Negli ultimi trent’anni solo il 2% delle sentenze capitali è stato commutato in altre pene. Anzi, da un sondaggio dell’istituto demoscopico Usa, Gallup, dell’ottobre 2009, è emerso che oltre il 75% degli americani sarebbe addirittura favorevole a un incremento della sentenza capitale.

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