I salari pubblici? Ad personam

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di ALBERTO ALESINA e ANDREA ICHINO

Se l’Italia non ricomincia a crescere, il rapporto debito/Pil non scenderà mai e il paese non uscirà da quello stato d’insicurezza fiscale che lo attanaglia ormai da tempo. Il settore pubblico è quello in cui è più evidente la difficoltà di conciliare gli obiettivi di contenimento della spesa e di stimolo alla crescita.

I costi e l’inefficienza della pubblica amministrazione pesano sulla produttività del paese, ma al tempo stesso erogare maggiori risorse a chi le spende male sarebbe controproducente e comunque aggraverebbe il problema del debito, data l’impossibilità d’incrementare le tasse. E se anche si riuscisse, come certamente si deve, a recuperare evasione fiscale, queste entrate dovrebbero servire solo a ridurre le aliquote per chi le tasse le paga già.
Come si può, allora aumentare l’efficienza del settore pubblico senza spendere maggiori risorse? L’unica soluzione percorribile è difficile, ma non ha alternative: si deve contenere la spesa aggregata differenziando al suo interno l’erogazione di salari e risorse che premino i migliori a svantaggio dei peggiori. La manovra Tremonti ha bloccato la crescita dei salari pubblici (oltre che le assunzioni) che da tempo salivano più rapidamente di quelli privati, e per la prima volta ha fatto entrare nel lessico politico italiano il concetto di “riduzione” dei salari statali, sia pur di poco e per pochi. Questa è una novità su cui far leva. Ma ora bisogna usarla e proseguire sulla strada delle differenziazioni a parità di spesa totale. Sono almeno due le dimensioni su cui agire: produttività e costo della vita.
Sul primo punto, il termine “meritocrazia” è ormai sbandierato da tanti, ma pochi hanno il coraggio di dire che questo implica aumentare i salari di qualcuno e ridurre quelli di altri, visto che la somma totale non deve salire. Per fare questo sono necessari sistemi di valutazione, ma al tempo stesso sarebbe pericoloso collegare meccanicamente le retribuzioni ai pochi indicatori misurabili di performance. Questi criteri, apparentemente oggettivi, sono manipolabili e possono incentivare comportamenti diversi da quelli veramente desiderati se questi ultimi non sono facilmente misurabili. Servirebbe una maggiore autonomia e discrezionalità dei singoli enti pubblici nella gestione delle loro politiche retributive, fatta salva la valutazione ex post dei risultati.
Nelle scuole americane e inglesi, ad esempio, gli insegnanti migliori hanno stipendi più alti non per un rigido meccanismo che leghi automaticamente le loro retribuzioni a indicatori misurabili ma parziali del loro valore. È il mondo esterno ad indicare chi sono gli insegnanti migliori, ossia quelli più contesi tra le varie scuole: le maestre piu brave ricevono tante offerte e il loro datore di lavoro deve tenerne conto se non vuole perdere le migliori. Gli uffici pubblici in Italia hanno bisogno di questa medesima autonomia, combinata con una seria valutazione dei risultati.
Sulla differenziazione in base al costo della vita, si è scritto molto (noi stessi su queste pagine e recentemente Angelo Panebianco sul Corriere della Sera). Ci sono zone del paese (non necessariamente solo al Sud) in cui i prezzi dei beni di consumo sono almeno del 20% inferiori che in altre. Considerando il prezzo delle case, le differenze sarebbero forse ancora maggiori. Quindi il potere d’acquisto reale di lavoratori con retribuzioni nominali uguali può differire notevolmente nelle diverse aree del paese. In un mercato del lavoro libero queste differenze reali si aggiusterebbero per tenere conto di quanto diversamente attraenti sono le condizioni di vita e di lavoro nei diversi luoghi. Ma se i salari nominali non possono aggiustarsi e sono dovunque uguali a parità d’inquadramento, come nel settore pubblico italiano, il salario reale di chi vive in zone a basso costo della vita potrebbe essere ingiustificatamente troppo alto.
Non solo è iniquo che, a parità di altre condizioni, il potere d’acquisto di lavoratori identici debba essere diverso, ma così facendo si danno anche incentivi sbagliati che riducono le potenzialità di crescita del paese. Dove il costo della vita è basso si sta in coda per il posto pubblico, che fa concorrenza “sleale” agli imprenditori privati. E in generale gli uffici pubblici tendono ad essere sottodimensionati da una parte e sovradimensionati altrove.

Il Sole 24 Ore, 06 giugno 2010

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