I liberali possono dividersi pure su Israele?

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di LIVIO GHERSI

Per alcuni anni, a partire dai risultati delle elezioni del 2004 per il rinnovo del Parlamento Europeo, sono stato assiduamente in contatto con quasi tutti i gruppi e le associazioni dichiaratamente liberali esistenti in Italia, per verificare se esistessero le condizioni minime per una riunificazione, se non di tutti, di una parte significativa dei liberali su una linea politica che ora, per sbrigarmi, definisco “centrista”. Ossia volta al superamento di un sistema politico che con artifizi vari, di tecnica elettorale e di regole istituzionali, altri avrebbero voluto semplificare fino all’estremo, risolvendolo nella dialettica fra due soli partiti. Tra i tanti che, senza essere arruolati fra i laudatori del Presidente Berlusconi, si compiacciono di definirsi liberali, per sensibilità sviluppata attraverso specifiche letture, o per tradizioni familiari, o per le più varie motivazioni, ho rilevato — quasi con lo spirito scientifico del ricercatore — tutto e il contrario di tutto.

Per quanto riguarda la legge elettorale, ho incontrato persone convinte che la proporzionale sia da fuggire come la peste (“maledetta proporzionale” ha scritto qualcuno) e che non esistano alternative al sistema maggioritario, realizzato attraverso collegi uninominali ad un solo turno. A questi anglofili, il leader dei liberal-democratici britannici, Nick Clegg, recentemente ha dato un dispiacere proponendo di rimettere in discussione con apposito referendum il mantenimento della legge elettorale del Regno Unito, che i nostri pensavano perfetta. Non mancano, sul fronte opposto, i difensori della proporzionale, che magari vorrebbero purissima, senza alcuno sbarramento, in modo che anche liste che raccolgono lo zero virgola qualcosa abbiano speranze. Per quanto mi riguarda, so che la legge elettorale perfetta non esiste; personalmente, propendo per un sistema elettorale misto, con la parte prevalente dei seggi assegnati in collegi uninominali, ma con candidati selezionati in un precedente turno di primarie obbligatorio e disciplinato dalla legge; e con una quota di seggi assegnati con metodo proporzionale fra liste concorrenti in circoscrizioni abbastanza ampie, così da salvaguardare il pluralismo nella composizione del Parlamento, invece non garantito dal sistema maggioritario puro, perché potrebbe succedere che in tutti i collegi prevalga sempre il medesimo schieramento, in molti casi per pochi voti di scarto.

Ma la confusione delle lingue (e dei cervelli) si può riscontrare con riferimento a qualsiasi altro argomento. Così, da un lato ci sono i fautori dell’unità dei laici contro il pericolo clericale; dall’altro ci sono quanti obiettano che essere “laici” non basta a caratterizzare una linea politica (ad esempio, tanto Giovanni Gentile, quanto Antonio Gramsci, avevano posizioni non confondibili con quella dell’ubbidienza alla Chiesa Cattolica, ma si trattava pur sempre di posizioni molto diverse e distanti fra loro). Personalmente, nutro profondo rispetto per il sentimento religioso e sono convinto che il valore della libertà vada apprezzato anche (soprattutto) nella dimensione spirituale, come processo perenne di affinamento della coscienza morale individuale e di ricerca della verità.

Per passare alla “centralità” dell’economia, troviamo persone convinte che tutto ciò che è “pubblico” sia da respingere come fonte di sprechi e che le sorti di ogni cosa vadano decise dal mercato. Si dicono liberali, ma io li definisco anarco-capitalisti. Personalmente, non li sopporto; mi attesto sulla distinzione fra liberismo economico e liberalismo filosofico-politico-giuridico, che fu teorizzata da Benedetto Croce. Non dimentico mai che politici della Destra storica, come Minghetti e Silvio Spaventa, volevano che il sistema ferroviario nazionale fosse di proprietà e sotto l’esercizio dello Stato; per questo furono messi in minoranza nel 1876 da un’alleanza parlamentare fra Sinistra e liberisti. Così come non dimentico che un economista liberista, quale Ernesto Rossi, fu convinto fautore della nazionalizzazione dell’energia elettrica. In entrambi i casi (ferrovie ed energia elettrica), non per scelte ideologiche preconcette, ma per una valutazione realistica della soluzione che, nelle circostanze date, sembrava realizzare meglio l’interesse pubblico.

Finora mi ero illuso che ci fosse una qualche concordia di vedute fra i liberali almeno limitatamente alle grandi scelte di politica estera. Ma anche in questo campo vengo smentito dai fatti. Scopro un gruppo, ovviamente liberale, che invia una lettera al Ministro degli Esteri italiano (manca il senso del limite) per chiedergli di ritirare il nostro Ambasciatore in Israele; segue una vibrata protesta per la condizione dei Palestinesi di Gaza e contro i governanti israeliani, le cui mani gronderebbero sangue.
Al riguardo, condivido senza riserve l’ottimo editoriale di Angelo Panebianco nel “Corriere della Sera” del 4 giugno 2010, titolato “La fragilità di Israele”. Gli attuali governanti di Israele hanno compiuto e continuano a compiere gravi errori; ma il contesto è oggettivamente difficile. Negli ultimi tempi è stato reso più complicato dalle nuove posizioni assunte dalla Turchia, la quale intende fare pagare agli Europei le difficoltà che finora hanno frapposto all’ingresso di quell’importante Paese nell’Unione Europea.
Una Turchia protagonista di una politica estera aggressivamente caratterizzata nel segno dell’unità islamica può rimettere completamente in gioco equilibri già molto precari.

Non voglio discutere di quali fossero gli orientamenti politici delle persone di varia provenienza che hanno cercato di forzare il blocco navale israeliano, per portare aiuti alla gente di Gaza. Sotto il profilo strettamente metodologico, chiedo: non è forse vero che questo nostro mondo sarebbe ancora più violento e caotico se prendesse piede il criterio che quanti non condividono una misura politico-militare (come il blocco navale, nel caso in questione) sono legittimati a disattenderla in nome di superiori sentimenti di pace e di umanità? Occorre sempre molta prudenza prima di avventurarsi in considerazioni di politica estera; ma, ragionando in astratto, la Cina tollererebbe manifestanti di altri Paesi che, in territorio cinese, organizzassero una protesta, a favore del Tibet? La Russia tollererebbe, nel proprio territorio, manifestazioni per l’autonomia dei Ceceni? La violenza di uno Stato contro chi esprime opinioni determina sempre reazioni di rigetto. Ma bisogna avere chiaro che non sono soltanto gli Israeliani a comportarsi così. La storia mondiale è piena di atrocità, commesse da tutti gli Stati, per perseguire propri obiettivi di potenza. Anche i “civili” Inglesi hanno molte pagine davvero poco gloriose nella loro storia; fino al punto di muovere guerra ai Cinesi perché si rifiutavano di continuare a commerciare l’oppio. Per venire alla nostra storia italiana, basta ricordare il modo in cui il regime fascista normalizzò la Cirenaica, deportando popolazione inerme in campi di concentramento e facendola letteralmente morire di fame e di stenti. Fino all’impiccagione di Omar al-Mukhtàr.

Lo Stato d’Israele non ha avuto pace sin dal suo inizio. Nel maggio del 1948 fu attaccato contemporaneamente dai seguenti Stati arabi, che non avevano accettato la risoluzione del’ONU del 29 novembre 1947: Egitto, Siria, Libano, Transgiordania (l’attuale Giordania), Iraq e Arabia Saudita.
Nel 1967 (guerra dei sei giorni), fu Israele a prendere l’iniziativa bellica, ma dopo che Nasser aveva stabilito il divieto per le navi israeliane di attraversare il Canale di Suez.
La guerra del Kippur fu un attacco proditorio di Egitto e Siria contro Israele. Fu scelta una festa religiosa ebraica per cogliere di sorpresa ed impreparati gli Israeliani. Il Consiglio di Sicurezza del’ONU non condannò subito l’attacco, ma votò il cessate il fuoco soltanto sedici giorni dopo che erano iniziate le ostilità (22 ottobre 1973) e, naturalmente, diede torto agli Israeliani che, dopo aver subito l’offensiva nemica nella prima settimana, avevano ripreso il sopravvento militare.
L’ONU, per come è strutturata, dà sempre e comunque torto a Israele. Che rappresenta una piccola minoranza mondiale, rispetto ai numeri e alla rilevanza geo-strategica dell’insieme degli Stati arabi e islamici. Anche gli arabi più moderati, alla resa dei conti, non possono fare altrimenti che attestarsi su una linea di solidarietà inter-araba.

Israele ha potuto sopravvivere finora perché, nei momenti decisivi, gli Stati Uniti hanno posto il veto contro deliberazioni anti-israeliane del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Lo Stato d’Israele sembra forte contro i Palestinesi; ma, in realtà, è potenzialmente sempre più debole contro tutto il mondo arabo e islamico coalizzato. Quando gli Stati Uniti non avranno più la forza politico-militare di sostenere lo Stato d’Israele, questo sarà cancellato dalla carta geografica. Io temo questo esito e certamente non lo auspico. Mi piacerebbe che le prese di posizione pubbliche di quanti si definiscono liberali fossero qualitativamente diverse da quelle di coloro che abitualmente indossano sciarpe e mantelle con i colori palestinesi. Mi piacerebbe che un più sviluppato senso critico facesse comprendere che il male del mondo non inizia e non finisce con lo Stato d’Israele. Arrivo a sperare che Paesi realmente amici di Israele possano svolgere un credibile e concreto ruolo di mediazione per indurre gli stessi governanti israeliani a fare auto-critica e a seguire politiche più accorte, di ricerca della pace possibile con chi — all’interno del variegato mondo arabo e islamico — la pace la vuole davvero.
E, comunque, basta con i liberali generici. Vadano a ramengo. Se avessi un minore senso del ridicolo proporrei la costituzione di una nuova genia politica: i “liberali amici del bene comune”. In sigla ABC, perché proprio all’abbicci della politica si dovrebbe tornare.

pubblicato su “Terza Repubblica”

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