di Adriano Gianturco Gulisano
Chi può dire che sia sbagliato penalizzare quegli Atenei che mandano in rosso i bilanci pagati con i soldi dei contribuenti? Chi può pensare che la ricerca e le pubblicazioni non siano degli importanti criteri di merito? Chi non vorrebbe fare in modo che ai concorsi pubblici non ci sia alcun modo per i raccomandati di uscirne vincitori?
Sostenendo di voler mettere mano a tutto questo ieri è stato approvato alla Camera il disegno di legge Gelmini (C1666) “per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. Il provvedimento sembra avere buone intenzioni. Ma è solo inchiostro su carta? È utile analizzare nel dettaglio la legge. Va nella giusta direzione di razionalizzazione della spesa pubblica impedire altre assunzioni alle università che spendono per il personale più del 90% dei trasferimenti statali (sul Fondo per il finanziamento ordinario).
Sulla scia della trasparenza viene istituita un’ “Anagrafe nazionale nominativa dei professori ordinari e associati e dei ricercatori” contenente per ciascuno l’elenco delle pubblicazioni scientifiche prodotte. Ma l’idea che questo lavoro non debba determinare “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, si scontra con il realistico “non ci sono pasti gratis” del premio nobel Milton Friedman. In sintonia con questa visione è “l’obbligo di pubblicità delle attività di ricerca” che impone ai rettori di pubblicare on-line e inviare al ministero un rendiconto annuale su tutta la ricerca svolta in ateneo e anche i disincentivi economici per i mancati adempienti.
I buoni propositi però rischiano di impantanarsi quando si prevede che a decorrere dal 2009, una quota non inferiore al 7% del Fondo di finanziamento ordinario destinata a incrementarsi progressivamente, sarà ripartita fra le università in base alla qualità dell’offerta formativa e della ricerca scientifica. “L’abuso della ragione” porta spesso a domande tautologiche come: cos’è la qualità? E chi la valuta? Con quali criteri? Chi sceglie il valutatore? E può lo stato valutare se stesso?
Volendo innestare maggiore meritocrazia nel sistema, per gli scatti di stipendio biennali verrà prima controllato se il docente ha almeno una pubblicazione negli ultimi 2 anni e in caso negativo l’aumento sarà ridotto del 50%.
Sul versante delle assunzioni, le Commissioni giudicatrici per posti di professore ordinario, professore associato e ricercatore saranno poi composte da membri interni ed esterni sorteggiati da una lista di professori eletti ad hoc per tentare di arginare fenomeni di clientelismo. E nell’ambito del “Programma di rientro dei cervelli”, cambia la chiamata diretta. Gli atenei possono reclutare senza concorso professori impegnati all’estero da almeno un triennio e che abbiano già lavorato per altri tre anni in Italia. La procedura necessita però del placet del ministero e del parere del Consiglio universitario nazionale (Cun). Per assicurarsi però la qualità e l’onestà della selezione non è detto che tecnicismi repressivi di controllo siano lo strumento migliore. Si sa, “fatta la legge trovato l’inganno”: si troverà sempre il sotterfugio per giochi di potere fuori dalle logiche di mercato. La soluzione è introdurre alla radice l’incentivo ad assumere personale preparato e l’unico modo per farlo è il buono scuola che permette ai clienti/studenti di premiare i migliori, abolendo prima il valore legale del titolo di studio.
La legge compie poi degli aggiustamenti finanziari ai fondi per il diritto allo studio, ma se proprio si fosse voluto chiedere di più all’arte del compromesso, si sarebbe potuto reclamare che nelle graduatorie nessuno abbia qualche punto in più solo perché cittadino non-UE. Questo non per discriminare gli extracomunitari, ma perché nessuno può argomentare che la cittadinanza sia un criterio di merito o di demerito e perché se è discriminazione privilegiare gli italiani o gli europei, lo è esattamente anche il suo contrario. Se merito dev’essere, dev’essere al di sopra di tutto: nazionalità, età e bisogni.
pubblicato su L’Occidentale