L’ecotassa di Obama sul petrolio

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di GIOVANNI RADINI

Tassare il petrolio per essere sicuri? Yes, we can. Ma perché non pensarci prima? La proposta della Casa Bianca di aumentare da 8 a 9 centesimi di dollaro al barile le tasse a carico delle compagnie petrolifere potrebbe essere una buona idea, ma limitata a quanto sta accadendo oggi. L’obiettivo è quello di creare in tempi assolutamente ristretti un fondo assicurativo per le spese di sicurezza, in questo caso da investire nel tentativo di fermare la chiazza di petrolio di fronte alla Louisiana, e per la definizione di nuove tecnologie contro i disastri ambientali. La marea nera che continua a espandersi nel Golfo del Messico deve aver toccato il cuore del Presidente Obama e di tutta Washington. Negli Usa effettivamente sono ancora vivi i ricordi di nemmeno cinque anni fa dell’uragano Katrina che mise in ginocchio sempre la Louisiana e con essa New Orleans, radendo al suolo uno dei gioielli architettonici del “vecchio Sud”. Oggi, dopo circa tre settimane in cui si stanno compiendo vanamente tutti gli sforzi possibili per tappare la falla provocata da un’esplosione sotto la piattaforma petrolifera “Deepwater Horizon”, il bacino del Mississippi è nuovamente a pezzi. La natura non centra però. Anzi, questa volta essa è vittima di un sistema industriale mondiale vincolato dall’oro nero e dalla necessità di dover sfruttare le risorse anche nelle aree più pericolose o a rischio di disastro ecologico. L’incidente è accaduto nell’Atlantico, ma i precedenti insegnano che anche altrove la situazione è ugualmente precaria. Dall’Alaska al Golfo Persico, l’estrazione di petrolio mette in discussione inevitabilmente l’ecosistema.

Si calcola che dalla falla sottomarina fuoriescano circa 5mila barili di petrolio ogni giorni. Inizialmente la British Petroleum aveva dimostrato un certo ottimismo, forse ostentandolo eccessivamente, nell’affermare di saper contenere l’incidente. L’intervento di una task force navale di sua proprietà costituita da quattro sottomarini aveva rappresentato una speranza che si potesse evitare quello invece che poi è successo. Oggi, per fermare la chiazza oleosa, si stanno ipotizzando le idee anche più balzane. Nei giorni precedenti si era addirittura pensato di cospargere l’oceano di capelli umani, con l’obiettivo di assorbire il petrolio fuoriuscito. Le nostre limitate competenze tecniche a riguardo ci permettono solamente di giudicare l’idea se non altro originale. E, per quanto strana, di auspicare che funzioni. Ben peggiore è invece la proposta del giornale russo Komsomolskaja Pravda. Questa ieri da Mosca suggeriva un’esplosione atomica per chiudere il buco nel fondale oceanico. Ai tempi dell’Urss, simili e scellerate iniziative sarebbero state adottate ben cinque volte. Solo una fu un fallimento, le altre andarono a buon fine. Il dato statisticamente positivo però non prende in considerazione che sarebbe assurdo risolvere un disastro ecologico petrolifero con un “Armagheddon nucleare”. In natura, fare tabula rasa del problema non è lo stessa cosa che cancellare un’equazione sbagliata in un laboratorio scientifico.

La proposta degli Stati Uniti a sua volta rischia di avere immediate e negative ripercussioni finanziarie. Washington sta agendo in buona fede. Le immagini che arrivano dal Golfo del Messico sono agghiaccianti per chiunque. Obama, dal terremoto di Haiti a oggi, sembra essere continuamente preso in contropiede da ogni tipo di evento. Pare non essere pronto agli imprevisti. E le idee che il suo staff matura per parare questi ultimi suscitano per lo meno perplessità. D’altra parte i Paesi produttori del Golfo persico, primi esportatori mondiali di petrolio, potrebbero replicare all’iniziativa con un aumento dei prezzi. Ieri a New York il greggio ha chiuso sui 76 dollari al barile. L’eventuale aumento costituirebbe una reazione che, secondo gli schemi della logica politica, avrebbe una sua sensatezza. Gli arabi potrebbero giudicare la proposta statunitense come una misura fuori tempo massimo, dopo che i “buoi sono scappati dal recinto”, che una compagnia petrolifera occidentale ha lasciato distrattamente aperto. L’ipotetica crescita del prezzo del greggio giungerebbe nel momento peggiore soprattutto per il mondo finanziario europeo e per la macchina industriale americana che, sebbene sia tornata a camminare, resta vessata ancora da un 9,7% di disoccupati nel primo quadrimestre del 2010.

Per come si sta cercando di gestire il disastro, quello che viene da sottolineare è da una parte l’assoluta mancanza di prevenzione, dall’altra la continua dipendenza dal petrolio come risorsa energetica primaria. In entrambi i casi, dagli Usa dovrebbe giungere la richiesta non tanto di aumentare le tariffe – che risolverebbe unicamente il disastro della Louisian – bensì di creare una politica energetica internazionale impostata sulle fonti alternative, in primis quella nucleare, sia sulla creazione di un sistema di sicurezza a “prova di disastro ambientale”. Ma per questo la creazione di un fondo comune appare un’iniziativa unicamente propagandistica.

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