L’imputazione contro il pakistano Sahzad Faisal, naturalizzato americano dal 2009 e da ieri reo confesso del fallito attentato a Time Square, offre l’opportunità di riflettere sulla presenza degli immigrati pakistani residenti negli Stati Uniti. Si tratta di una comunità relativamente giovane, insediata nel nuovo continente dopo la disgregazione dell’Impero britannico, nella seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso. Le statistiche più recenti (2007) parlano di circa 280 mila unità, pari all’1% della popolazione degli Usa. In questi sessant’anni di radicamento nel Paese, la comunità pakistana ha generato una seconda e una terza generazione, perfettamente integrate nel melting pot statunitense. Anzi, i “pakistani d’America” sono stati assorbiti con maggiore facilità rispetto ad altri popoli. Il loro bilinguismo, impostato sugli idiomi locali e sull’inglese – che resta tuttora madrelingua anche in Pakistan – ha permesso agli immigrati da Islamabad, Karachi oppure Lahore di evitare il primo grande ostacolo che si incontra nello sbarcare sulle coste degli Stati Uniti.
Oggi, secondo i rilevamenti dell’“Us Census Bureau”, questa realtà di quasi 300 mila persone non sembra essere un soggetto demograficamente in crescita. I nuclei della maggiore concentrazione sono gli Stati di New York, dove sono presenti circa 70 mila pakistani, l’Illinois e il New Jersey, entrambi con 30 mila abitanti, la California (25 mila) e il Texas, dove c’è una comunità pakistana di 20 mila persone. Il resto è distribuito in modo disomogeneo negli altri Stati dell’Unione.
C’è un motivo particolare che spiega la densità immigratoria in queste specifiche aree piuttosto che in altre. Tendenzialmente gli Stati sulla costa sono più popolati, rispetto a quelli all’interno del Paese. Da un punto di vista socio-culturale, questi ultimi costituiscono la cosiddetta God’s belt, una fascia geografica che si estende dai confini con il Canada e scende fino al Messico ed è abitata da una popolazione di maggioranza bianca, di stampo ultra-conservatore e quindi poco incline a ricevere flussi migratori provenienti da Paesi tanto diversi, com’è il Pakistan. La scelta degli Stati appena elencati è connessa con gli spazi offerti dal mercato del lavoro. Nella maggior parte dei casi si tratta di individui privi di una specializzazione professionale e disposti a entrare nel mondo del lavoro come operai e braccianti agricoli. I bacini industriali di New York-New Jersey e quello di Chicago (Illinois) occupano i primi posti della classifica. Il Texas ha saputo impiegare gli immigrati pakistani nelle sue sterminate aziende agricole. Si registra inoltre una immigrazione “di settore”, in parte fatta da professionisti (medici e ingegneri), concentrati soprattutto in California e ancora una volta New York, e per il restante composta da pakistani che hanno avviato una propria attività commerciale di vario tipo, in particolare “24h market” e ristoranti.
Dal punto di vista economico, si tratta di una comunità più che benestante. La presenza negli Usa da circa sessant’anni ha permesso ai pakistani di disporre una forte solidità economica. In cifre questo si traduce in una media di 50 mila dollari di reddito pro capite annuo. Questo ha permesso alla maggioranza dei pakistani statunitensi di dotarsi di un adeguato patrimonio immobiliare, di essere inserita nella complessa rete assicurativo-sanitaria nazionale, ma al tempo stesso non ha fatto rinunciar loro alle “rimesse” nella madrepatria. Nel biennio 2007-2009, la comunità pakistana negli Usa ha girato a parenti e amici rimasti nel Paese di origine circa 1,72 miliardi di dollari. Questo porta a due conclusioni. Da una parte si è di fronte a una ingente liquidità monetaria. Il caso esemplare si è avuto cinque anni fa, in occasione del terremoto che devastò il Pakistan e provocò 79 mila morti. In quella occasione dagli Usa giunsero i fondi più cospicui. Dall’altra abbiamo la conferma del tuttora attaccamento al Paese d’origine per gli immigrati, ma anche per le generazioni successive.
L’identità pakistana viene conservata nell’ambito religioso e culturale. La maggior parte degli immigrati infatti è rimasta fedele all’Islam, in particolare quello sunnita. Gli sciiti, i cristiani e gli zoroastriani presenti negli Usa sono per lo più rifugiati politici, scappati dall’instabilità religiosa che il Pakistan continua a presentare. Una differenza importante riguarda invece le tensioni etniche e tribali. La convivenza impossibile che si vive in Pakistan fra sindi, punjabi, pashtun e balochi – fonte strutturale degli scontri armati in seno al Paese – non è stata “importata” in America. La frammentazione c’è, ma non si corre il rischio che essa sfoci in confronti diretti, in quanto ciascuna realtà tiene le debite distanze dai propri avversari. Ogni comunità etnica ha copiato in modo speculare quella originaria in Pakistan. Il leader locale svolge le funzioni di capo tribù, mantiene i contatti con le singole famiglie, ne segue la loro condizione economica e l’educazione dei figli, ma soprattutto gestisce i contatti con la madrepatria. È un fenomeno che si riscontra anche nelle comunità pakistane d’Europa, nella fattispecie quella italiana di Brescia.
Vista da questa prospettiva l’integrazione c’è ed è solida. Lo dimostra anche la presenza di una lunga serie di organizzazioni e associazioni pakistane, riconosciute dalle leggi federali Usa e attive nei settori professionali, per esempio l’Association of Pakistani Physicians (App) e la Us-Pakistan Business Council (Uspbc). Altre sono state istituite a scopo benefico e si concentrano nell’ambito della educazione, mettendo a disposizione borse di studio universitarie sia per i giovani pakistani con cittadinanza americana sia per quelli che intendono immigrare negli Usa. È probabile che Sahzad Faisal abbia usufruito di queste agevolazioni per raggiungere New York.
La solidità di questo sistema è stato messo a dura prova dopo l’11 settembre 2001. La psicosi collettiva di identificare in ciascun musulmano un potenziale terrorista si è diffusa nel cuore della società americana. Dalla tolleranza si è passati alla diffidenza. Nella loro generalità tuttavia, i pakistani naturalizzati negli Usa hanno dimostrato fin da subito di volere e potere contribuire alla prevenzione di attacchi terroristici alla pari delle altre comunità. Per questo, il fatto che Faisal sia cittadino degli Stati Uniti da solo un anno, lascia presupporre alcune falle nel sistema di controllo sia da parte delle Autorità Usa sia all’interno della comunità pakistana, la quale nutre tutto l’interesse a evitare di passare come filo-talebana.
Pubblicato su liberal del 5 maggio 2010